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pluralismi fragili

La crisi dell'uomo europeo sacrificato sul bilanciere dei like sui social

Sergio Belardinelli

L’uomo europeo razionale, libero e aperto alla verità, lungi dal rappresentare un ideale condiviso, è diventato un vero e proprio campo di battaglia, dove oltretutto ciò che conta non sono tanto i buoni argomenti e il confronto critico, quanto piuttosto il numero dei like 

Come tutti sappiamo, una sorta di aura di divina intangibilità avvolge l’idea di uomo sviluppatasi nella nostra Europa grazie alla cultura greca, a quella ebraica e soprattutto a quella cristiana. Non è mai stato facile essere all’altezza di questa idea, nemmeno per i cristiani, ma è certo che essa è andata affermandosi sempre di più, non soltanto in teoria, ma anche nelle concrete forme di vita e negli assetti istituzionali europei, fino a estendersi anche al di fuori dei confini dell’Europa e dell’occidente. Non credo che sia esagerato sostenere che precisamente in questa idea consiste l’identità europea, quella che conta per davvero, non quella geografica, etnica, politica o più genericamente culturale, che peraltro nel caso dell’Europa non esiste. Ma che succede nel momento in cui in Europa e in occidente incominciano a prendere piede modi di pensare difficilmente compatibili con quest’idea? 


Un pensatore come Hegel, tanto per dirne uno di prim’ordine, non avrebbe avuto dubbi sul fatto che stiamo parlando di un retaggio dovuto soprattutto al cristianesimo, “pel quale – parole sue – l’individuo come tale ha valore infinito, ed essendo oggetto e scopo dell’amore di Dio, è destinato ad avere relazione assoluta con Dio come spirito, e far che questo spirito dimori in lui”. Eppure si direbbe che la progressiva disgregazione dell’antropologia cristiana occidentale non interessi più nemmeno ai cristiani. La stessa Chiesa cattolica, alla quale si deve riconoscere il merito di aver richiamato per anni l’attenzione su una vera e propria “emergenza antropologica” che andava delineandosi nella cultura contemporanea, sembra essersi fatta silente su questo tema. Nel frattempo l’emergenza antropologica ha assunto ormai la forma di un pluralismo antropologico fatto di antropologie mortalmente nemiche una rispetto all’altra. Altro che benedizione da dare o meno alle coppie omosessuali.


Se ieri ci attestavamo su forme di pluralismo degli stili di vita, pluralismo etico o politico, derivati comunque fondamentalmente da un’antropologia in gran parte condivisa, oggi le vere divisioni, spesso incolmabili, le registriamo proprio sul piano antropologico. Evoluzionismo, neuroscienze, biologia sintetica, grazie a intelligenze artificiali, stanno generando concezioni dell’uomo abissalmente distanti da quella cristiana che per secoli, almeno fino alla metà del secolo scorso, è stata sullo sfondo della riflessione filosofica, etica e politica dell’Europa e dell’occidente in generale. La battaglia culturale sull’aborto ha segnato forse la prima frattura incolmabile dentro la cultura occidentale, la prima sollecitazione ingovernabile per le istituzioni delle nostre liberaldemocrazie, i cui assetti istituzionali non sono stati pensati per sostenere guerre su questioni che mettono in discussione precisamente l’idea che abbiamo dell’uomo; questioni quindi delle quali è difficile venire a capo con la sola regola aurea della maggioranza. Tanto è vero che sull’aborto  una maggioranza ha vinto ma la minoranza non si è adeguata. Qualcosa di simile è avvento con la cosiddetta procreazione medicalmente assistita e sta avvenendo con l’antiumanesimo di certo ambientalismo apocalittico e il genderismo che cerca in tutti modi di affossare la famiglia come cellula fondamentale della società.  Ma presto potremmo trovarci a decidere se ammettere o no che un feto umano si sviluppi dentro una macchina piuttosto che nel grembo materno, se ammettere o no ibridazioni uomo/macchina dagli effetti individuali e sociali del tutto imprevedibili, e molto altro ancora. Il che significa che stiamo affrontando e più ancora dovremo affrontare in futuro problemi sempre più laceranti dal punto di vista etico-antropologico che, inevitabilmente, si riverbereranno sul piano delle nostre culture politiche e dei nostri assetti istituzionali, col rischio di rompere del tutto quel già precario consenso di fondo sul quale esse basavano la loro forza, diciamo pure, quegli spazi di non disponibilità che maggioranze e minoranze consideravano al di sopra del conflitto politico ordinario.  


Ciò che voglio dire è che, mentre il pluralismo politico è sicuramente un valore, un modo di essere fedeli all’ideale antropologico cristiano occidentale, non sono sicuro che lo stesso si possa dire per il pluralismo che si va delineando oggi: un pluralismo che non riguarda più soltanto la difesa degli interessi di questo o quel gruppo sociale, il modo di concepire il sistema fiscale o quello educativo, l’assetto istituzionale da dare allo stato o la collocazione di uno stato nell’ambito delle cosiddette relazioni internazionali, tanto per sottolineare alcuni settori importantissimi per la vita degli uomini, ma riguarda appunto la concezione che abbiamo dell’uomo. L’uomo europeo di cui parlavo sopra, l’uomo razionale, libero e aperto alla verità, lungi dal rappresentare un ideale condiviso, è diventato un vero e proprio campo di battaglia, dove oltretutto ciò che conta non sono tanto i buoni argomenti e il confronto critico, quanto piuttosto il numero dei like che si ottengono sui social. Una crisi di dimensioni gigantesche, della quale sarà bene che si ricominci a parlare.

 

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