Papa Francesco (foto di Andrew Medichini per Ap, via LaPresse)  

Ti benedico, ma in dieci secondi. La Chiesa della fede a cronometro

Basta parlare di peccato originale, ha detto un vescovo tedesco. E' l'idea di una Chiesa che deve solo consolare e coccolare. Come una tisana serale

Matteo Matzuzzi

Sempre meno si parla e discute del problema centrale: la fede che evapora, gli uomini e le donne del nostro tempo  che non credono più. Con il rischio, sempre più attuale, che ci si trasformi in una gigantesca organizzazione assistenziale

È il dramma del sedicesimo secondo. Il povero prete che sa di poter e dover benedire la “coppia irregolare” ma che deve farlo rapidamente, in modo che non sia un atto liturgico ma solo pastorale. Senza creare confusione, scandalo o dar l’idea che quel suo atto così solenne sia una legittimazione dell’unione tra i due poveri cristiani che ha di fronte. Deve farlo in dieci, massimo quindici secondi, ha stabilito il “comunicato stampa” del dicastero per la Dottrina della fede, divulgato due settimane dopo la Dichiarazione approvata dal Papa che dava il via libera alla benedizione di tutti, regolari e irregolari. Determinando la sollevazione di interi episcopati, e non solo quelli africani, che giovedì con un comunicato dettagliato hanno spiegato che lì, a casa loro, non ci sarà alcuna benedizione per le coppie omosessuali. E’ la prima volta che accade: un intero continente non darà attuazione a un documento approvato dal Pontefice. La gravità del fatto è testimoniata dalla premessa di “incrollabile attaccamento al Santo Padre” (in tempi di scismi minacciati, veri o presunti, meglio ribadirlo) e per tentare di salvare il salvabile si fa sapere che il Papa e perfino il prefetto dell’ex Sant’Uffizio sono stati informati e hanno approvato la dichiarazione africana. Anime candide e pretoriani autoproclamatisi tali di Francesco hanno risolto tutto spiegando che questa è la sinodalità (si spera di no, visto che sarebbe penoso ridurre una questione così centrale al fatto che ognuno a casa sua può fare come più gli pare).

 

Dieci, quindici secondi, garantisce il cardinale Victor Manuel Fernández, il teologo seduto sulla poltrona che per ventiquattro anni fu di Joseph Ratzinger. Il povero prete deve sentire il cuore sussultare dentro di sé, cedendo alla compassione e benedicendo. La fattispecie illustrata nel chiarimento, dopotutto, è struggente. “Immaginiamo che in mezzo a un grande pellegrinaggio una coppia di divorziati in una nuova unione dicano al sacerdote: ‘Per favore ci dia una benedizione, non riusciamo a trovare lavoro, lui è molto malato, non abbiamo una casa, la vita sta diventando molto pesante: che Dio ci aiuti!’”. Davanti a tale situazione, da tragedia greca o – meno aulicamente – da telenovela sudamericana, come si può negare la benedizione? Il Sant’Uffizio mette il sacerdote con le spalle al muro, e pazienza se quest’ultimo stia ancora cercando di capire come possa una benedizione che è un atto liturgico di per sé non essere liturgica. Altro che il Carneade, chi era costui? di manzoniana memoria: qui bisogna andare ai fondamentali della propria formazione in seminario. Anche perché la benedizione al peccatore non è mai stata negata da nessuno, come stanno peraltro ribadendo anche personalità vicine al Papa regnante. Altra cosa è benedire l’unione. Altra cosa ancora, poi, è benedire l’unione senza approvarla (che poi è l’invenzione del cardinal Tucho), un cortocircuito totale

 

Al di là delle battute, legittimate da quanto sta accadendo alla Dottrina della fede dopo l’arrivo del mistico Fernández, che in sei mesi ha rivoluzionato il modo di operare intervenendo su tutti i temi all’ordine del giorno e concedendo quasi più interviste del Pontefice regnante, il tema è serissimo. La benedizione a tempo è un inedito, un qualcosa cui non aveva pensato nessuno e che da giorni fa sorridere e interrogare perfino presuli che condividono dall’alfa all’omega il programma di Papa Francesco e che sono entusiasti della Chiesa modello da campo che sana le ferite e riscalda i cuori. Va bene tutto, dicono questi, ma fino a un certo punto: non è che si possa innovare ogni giorno con Dichiarazioni e comunicati che paiono scritti da scolari di quarta elementare senza riferimenti solidi a precedenti, codici e altro. Il manuale per la benedizione con cronometro è l’ennesimo affondo al senso trascendente. Al sacro. Tutto s’umanizza, tutto diventa affare mondano da regolare con norme e codicilli, paragrafi di comunicati stampa o respuestas a dubia provenienti dalle più sperdute periferie dell’orbe cattolico. Paradossale, se si pensa che proprio Francesco è il Papa che più volte ha ripetuto di non voler normare ogni cosa perché non ce n’è bisogno

 

Proprio rispondendo la scorsa estate ai dubia proposti dai cardinali Brandmüller, Burke, Sandoval Íñiguez e Zen, Francesco ricordava che “le decisioni che, in determinate circostanze, possono far parte della prudenza pastorale, non devono necessariamente diventare una norma. Cioè, non è opportuno che una diocesi, una Conferenza episcopale o qualsiasi altra struttura ecclesiale attivino costantemente e ufficialmente procedure o riti per ogni tipo di questione, poiché tutto ‘ciò che fa parte di un discernimento pratico davanti ad una situazione particolare non può essere elevato al livello di una norma’, perché questo ‘darebbe luogo a una casuistica insopportabile’. Il diritto canonico non deve né può coprire tutto, e nemmeno le Conferenze episcopali dovrebbero pretenderlo con i loro vari documenti e protocolli, poiché la vita della Chiesa scorre attraverso molti canali oltre a quelli normativi”. 

 

Il rischio, ora, è quello di regolamentare tutto, usare i bilancini, creando non solo ulteriore confusione ma anche alimentando i borbottii di quanti sarebbero i beneficiati del provvedimento in questione: sulla benedizione delle coppie omosessuali, ad esempio, il chiarimento del dicastero pone quelle unioni quasi su un piano di clandestinità. Benedizione sì, ma brevissima e di nascosto. E’ la corsa a rispondere al mondo, alle sue esigenze e non di rado alle sue pretese: un po’ come accadde agli albori della primavera del 2021, quando Francesco negò il placet alla benedizione delle coppie gay tramite responsum ad dubium, salvo poi quasi scusarsi pubblicamente di quanto da lui stesso approvato. La reazione del mondo – e della stampa in primis – erano state rumorose. Com’è possibile, si scriveva, che il Papa celebre per il suo azzeccatissimo “chi sono io per giudicare?”, ora liquidi la faccenda con un secco “no”? Infatti. 

 

Si dice che la dottrina resta uguale e che comunque non può essere il centro di tutto. Tra il bianco e il nero c’è anche il grigio, la situazione particolare rimessa alla pietas del sacerdote. Ma, diceva il cardinale Carlo Caffarra, “una Chiesa con poca attenzione alla dottrina non è una Chiesa più pastorale, ma è una Chiesa più ignorante”. E’ l’epoca in cui il Vangelo sovente è ridotto a melassa, distillato in omelie dove a fare da filo conduttore è un generico buonismo che fa quasi pensare al cattolicesimo come a una sorta di versione religiosa di un qualche spot natalizio, con campanellini pandori e fuochi finti accesi nel caminetto. Ma qui non dipende da Papa Francesco, è questione che va avanti da molto più tempo, almeno da quando le ore di catechismo sono state trasformate a incontri in cui si preparano cartelloni e si gioca. Non che fosse meglio la lettura con parafrasi dell’Apocalisse, certo. Ma tra le due cose, forse, una via di mezzo ci sarebbe. 

 

Il vescovo tedesco Schick, emerito di Bamberga, pochi giorni fa, ha detto che “si torna a parlare di peccato originale e non è una bella parola. Andrebbe evitata perché è totalmente fuorviante”. Meglio citare, aggiungeva mons. Schick, il luterano Bonhoeffer. Ironia della sorte, l’appunto del vescovo tedesco era stato preceduto poco prima dall’invito del cardinale Christoph Schönborn a “riscoprire il peccato originale”. Via il peccato, via gli ammonimenti: il messaggio deve essere non solo lieto (e fin qui non ci sarebbe niente di male, visto che “vangelo” significa “bella notizia”) ma appagante e tranquillizzante. Come una tisana o un plaid. La Chiesa deve confortare e coccolare. Non di certo ricordare che sono possibili pure le pene eterne e che arriverà il giudizio. Sia mai, quella è roba vecchia che si ricordano solo i nonni e forse i genitori. La Chiesa che serve come deposito per i bambini all’oratorio quando mamme e papà sono impegnati o come erogatore di sacramenti per poter fare da padrini e madrine ai battesimi o per sposarsi come si deve per avere un bel servizio fotografico.
E’ la Chiesa in cui si parla tanto – e a ragione – di povertà. Ma i poveri, poi, sono solo quelli senza casa che frequentano i dispensari attorno a San Pietro e le mense della Caritas, quelli che vengono intervistati dai telegiornali ogni Natale mentre pranzano grazie al meritorio lavoro della Comunità di Sant’Egidio. Dei poveri in spirito, beati secondo quanto detto da Gesù, non si parla mai. Forse, non si sa neppure chi siano. E’ la Chiesa in cui si parla di migranti, si organizzano giornate di preghiera e riflessione sui traffici da una sponda all’altra del Mediterraneo, si approntano sculture sul sagrato petrino. Si badi bene, sono tutte questioni centrali del nostro tempo, cui uno sguardo evangelico è necessario. Ma non sono il tutto, bensì una parte. E’ la Chiesa che si occupa molto delle cose di quaggiù, ma che sembra non domandarsi più il senso della crisi della fede. Che non sa, cioè, rispondere alla domanda più facile ma al contempo più drammatica: perché la gente non crede più? 

 

La soluzione davvero è quella di fare della Chiesa una gigantesca e universale Caritas, un grande ospedale da campo dedito alla cura degli scartati e degli afflitti? Nel Messaggio per la Giornata missionaria del 2013, Papa Francesco chiariva che “la Chiesa non è un’organizzazione assistenziale, un’impresa, una ong, ma è una comunità di persone, animate dall’azione dello Spirito Santo, che hanno vissuto e vivono lo stupore dell’incontro con Gesù Cristo e desiderano condividere questa esperienza di profonda gioia, condividere il Messaggio di salvezza che il Signore ci ha portato. E’ proprio lo Spirito Santo che guida la Chiesa in questo cammino”. Ma il rischio che venga percepita come un ente assistenziale c’è, soprattutto se il trascendente viene un po’ messo da parte, nei discorsi e nel quotidiano.  Ma non è solo afflato per gli ultimi e per gli scartati (come se prima non ci fosse, tra l’altro). C’è anche una buona dose di ideologia, che se non risparmia certe derive della “opposizione” al Papa – a cominciare da quanti ancora ne negano la valida elezione o danno prova di insuperabile fantasia cercando significati nascosti in parole, opere e perfino sguardi dell’emerito Ratzinger per giustificare una sua abdicazione forzata – è ben presente anche in chi s’appunta come medaglie sul petto i pronunciamenti papali o le direttive del cardinale Fernández. E’ l’esempio di James Martin, il gesuita della causa lgbtq, che un secondo dopo la pubblicazione di Fiducia supplicans già si faceva ritrarre mentre benediceva una coppia omosessuale, quasi a esibire un trofeo. E poi, davanti alle critiche, spiegava che erano loro, la coppia, a benedire lui. Battaglie identitarie che altro non sono che la reazione, un po’ tardiva, alle guerre culturali degli anni Novanta e dei primi Duemila che ebbero gli Stati Uniti come centro catalizzatore. Reazioni che in qualche caso, come quello di Martin, hanno il sapore del regolamento di conti in una realtà già divisa, non solo a livello di gerarchie ma anche alla base. 

Francesco lascerà una Chiesa mai come ora divisa, con tutte le polarizzazioni emerse in superficie. E non è detto che sia un male: le fratture ci sono sempre state, chi marciava contro pure: Paolo VI rappresentò la situazione descrivendo poeticamente il fumo di Satana entrato in Vaticano. Non è detto che sia un male, quantomeno i fronti sanno ciò che passa per la testa l’uno dell’altro. Quel che forse nessuno poteva immaginare è che uno dei campi di combattimento sarebbe stata la fede a cronometro.

  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.