Il dio dei presepi

Come è cambiata la rappresentazione della Natività in 800 anni di storia

Stefano Picciano

Il primo a mettere in scena la nascita di Cristo fu San Francesco nel 1223. Questo evento segnò l'inizio di una tradizione che si è sviluppata nel corso di otto secoli, dando vita a numerose rappresentazioni dell'evento. Oggi come allora, il bisogno di immedesimarci è lo stesso

"Voglio fare memoria di quel Bambino nato a Betlemme, e vedere i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato, come fu adagiato in una mangiatoia e come giaceva sul fieno tra il bue e l’asinello, e voglio in qualche modo vederlo con gli occhi del corpo". Le parole pronunciate da Francesco d’Assisi, esattamente ottocento anni fa, a Greccio, davano vita al primo presepe inaugurando una tradizione che, arricchita da otto secoli di storia, giunge ai nostri giorni. Era il dicembre del 1223 e Francesco sostava nel piccolo paese in provincia di Rieti rientrando da Roma, dove pochi giorni prima il papa Onorio III aveva concesso la conferma alla sua Regola e dove, probabilmente, aveva potuto osservare i mosaici della Natività nella basilica di Santa Maria Maggiore. La volontà di una contemplazione corporeis oculis evidenzia come ciò che mosse Francesco fu il desiderio non appena di poter immaginare, ma di partecipare per così dire fisicamente, in prima persona, come in una sospensione del tempo, agli eventi della Natività: “Si fece apparecchiare la mangiatoia col fieno – racconta San Bonaventura – e ivi fece venire il bue e l’asino e fecevi venire molti frati e altra buona gente”. I dettagli che la tradizione ci riferisce sono un invito a immedesimarci in quegli istanti: “volle fare questa cosa di notte, e fu in quella notte bellissimo tempo, e ivi fu grande quantità di lumi accesi, e fu molto solenne di molti canti di laude”. Conclude Tommaso da Celano: “Arriva alla fine Francesco: vede che tutto è predisposto secondo il suo desiderio, ed è raggiante di letizia”

Gli eventi di quella notte, poi riportati negli affreschi del Convento di Greccio e negli affreschi giotteschi della Basilica superiore di Assisi diedero vita a una tradizione che si sarebbe sviluppata, di secolo in secolo, tra esemplari innumerevoli, tra cui – più antica testimonianza rimastaci – il presepe, datato al 1289, di Arnolfo di Cambio, custodito a Roma in Santa Maria Maggiore, basilica sorta proprio – come ha sottolineato Benedetto XVI – “per celebrare il mistero della natività di Cristo”. Tra le sue mura si trovava peraltro, fin da tempi antichi, una ricostruzione della grotta di Betlemme e qui nel VII secolo papa Teodoro I volle collocare una preziosissima reliquia – cinque asticelle di legno provenienti dalla mangiatoia di Betlemme – donatagli dal patriarca di Gerusalemme. 

Ma quali furono, in assoluto, le prime rappresentazioni della Natività? Se volessimo risalire alle origini sarebbe necessario spingersi molto indietro nel tempo, con immagini che, in modo estremamente essenziale, raffigurano l’adorazione dei magi davanti al bambino. La più antica, databile al II secolo, si trova nelle catacombe di Priscilla, sulla via Salaria, a Roma, e delinea tre figure che compiono un’offerta porgendo i doni al bambino adagiato in grembo alla Vergine. Molte altre documentazioni seguono questo primo esempio, ampliandosi poi, due secoli più tardi, con altri elementi come la capanna con l’asino e il bue. Appare significativo il fatto che, a motivo della centralità del suo ruolo, nelle rappresentazioni più antiche il bambino ha dimensioni sproporzionate rispetto al contesto, mentre la madre appare inizialmente posta al margine della scena, spostandosi verso il centro visivo solo dal VI secolo in avanti

I primi ad essere accolti nell’iconografia della Natività – dal momento che le prime rappresentazioni sono in realtà delle scene di adorazione – sono dunque i magi che, come ci spiega Gioia Lanzi (Guida al Presepe, Itaca, 1995), hanno la funzione di “significare l’universalità della salvezza”, destinata non solo agli Ebrei, bensì a tutti gli uomini. “Nei magi – aggiunge la storica dell’arte – si presenta il tema del viaggio, figura della vita umana come ricerca, che viene guidata dai segni inviati: ci si stacca da quanto è noto, per incontrare colui cui aspira il cuore umano”. Malgrado i vangeli parlino genericamente di “alcuni magi”, senza precisarne il numero, la tradizione ne conta tre in quanto tre sono i doni che si ascrivono alla loro offerta, composta da un segno di regalità (oro), un riferimento alla natura divina (incenso) e un richiamo alla morte e risurrezione del Salvatore (mirra). 

In un suo prezioso libro sul tema (Angeli e pastori, Ut Orpheus, 1997) Nico Staiti ci offre uno sguardo sintetico su queste prime testimonianze, moltiplicatesi dal IV secolo, quando “la disputa sorta all’interno della cristianità circa la natura umana e divina del Cristo e l’introduzione della festa di Natale nel calendario liturgico risvegliarono un interesse generale per la rappresentazione della Natività”. Da allora la raffigurazione si arricchisce significativamente e gli elementi che, nel corso dei secoli, trovano posto sulla scena non hanno appena la funzione di ampliarne gli orizzonti, bensì – estendendo i confini della rappresentazione, idealmente, al mondo intero – quella di racchiudere una molteplicità di simboli. Innanzitutto la grotta, un luogo che nel vangelo di Luca non viene affatto citato, ma che fin dai tempi più remoti si ammanta di sacralità: è in prossimità di una grotta che la mitologia classica (si pensi a Ulisse che, nel Canto X del secondo poema omerico, compie il suo viaggio nell’Ade) colloca infatti il confine tra la vita e la morte. In alcune fonti apocrife si accenna addirittura ad una spelonca oscurissima, mai attraversata dalla luce del sole, mentre in modo più verosimile il vangelo di Matteo parla di un tugurium, cioè quella tettoia che in ambito palestinese era consuetudine costruire sulla roccia che affiancava le case. È lo stesso Staiti a riportare un frammento del monaco Johannes de Hildesheim che documenta l’usanza “di tenere speciali case (…) nelle quali si trovano cavalli, muli, asini e cammelli” destinati ai viaggiatori che volessero prenderli a noleggio. E conclude: “Proprio una casa di tal genere era una volta nel luogo dove il Signore venne al mondo”. Dal buio, dunque, alla luce. Non solo la cometa che guida i magi, ma alcuni testi accennano a una luce soprannaturale, che nella tradizione rappresenta l’immagine di Gesù come luce nuova che entra nel mondo. Quella di asino e bue, nei quali i padri della Chiesa individuarono il riferimento simbolico a pagani ed ebrei (ma di cui nei testi evangelici non si trova alcuna menzione) è in realtà una presenza tutt’altro che chiara e potrebbe persino derivare da un curioso errore di traduzione: in un testo apocrifo si legge che “tre giorni dopo la nascita del Signore (…) Maria uscì dalla grotta ed entrò in una stalla, depose il bambino in una mangiatoia, dove il bue e l’asino l’adorarono. Si adempì allora quanto era stato detto dal profeta Abacuc con le parole ‘Ti farai conoscere in mezzo a due animali’”. Pare, tuttavia, che nel testo originale il termine “animali” fosse in realtà “epoche”, formando una frase traducibile con l’espressione “Ti farai conoscere in breve tempo”.

La prevalente presenza dei pastori – al tempo una categoria considerata indegna di fiducia – è il dato più immediatamente comprensibile: Dio diventa un uomo in mezzo agli “ultimi”, a coloro che non ricevono considerazione da nessuno e che pure, accolto l’annuncio, hanno la semplicità di incamminarsi verso la strada indicata. Nasce nella povertà, nella periferia, tra le persone più semplici, quelle con cui più facilmente ciascuno può identificarsi. Qui si apre il vasto capitolo relativo agli atteggiamenti che le figure del presepe assumono, particolarmente nella ricchissima tradizione napoletana: non solo l’adorazione, racchiusa nelle immagini di coloro che si inginocchiano davanti al bambino, ma persino il sonno del pastore addormentato, che rappresenta l’antitesi dell’attesa: è colui che non solo non attende, ma nemmeno si accorge di ciò che sta avvenendo. Eppure, come acutamente sottolinea Gioia Lanzi, “il Bambino viene lo stesso, viene anche per lui. E’ bellissima questa figura nel presepio: eccezionalmente attuale, e anche consolante”. Vi è poi il famosissimo pastore della meraviglia, che si contrappone a quelli che portano i doni per il suo atteggiamento di stare, a mani vuote, semplicemente con le braccia protese verso l’alto. Scrive in proposito Marino Niola (Marino Niola ed Elisabetta Moro, Il presepe, Il Mulino, 2022): “E’ il personaggio che non ha nulla da donare se non il suo stupore. Narra una leggenda che egli viene rimproverato per non aver portato nessun dono al Bambinello, al che la Vergine interviene in sua difesa, dicendo che il pastore della meraviglia è stato messo al mondo con il compito di meravigliarsi. Perché il mondo è meraviglioso per chi è capace di meravigliarsi”. Giuseppe, il custos, colui di cui i vangeli non riportano nemmeno una parola, compare talvolta, in un’immagine malinconica e dolce, pensoso, con il mento appoggiato a una mano; a volte, sullo sfondo, le rovine simboleggiano il mondo antico che finisce, il mulino con il suo ininterrotto moto rievoca lo scorrere del tempo, la locanda richiama il fatto che “non c’era posto per loro nell’albergo” (Lc 2,7). Densi di significato sono anche il pescatore, con il suo richiamo all’acrostico Ikthys (Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore) usato dai cristiani fin dai tempi più antichi e, naturalmente, gli agnelli che rappresentano la prefigurazione del sacrificio. La donna che attinge acqua alla fonte, talvolta rappresentata, fa riferimento al luogo in cui la vergine aveva accolto l’annuncio dell’angelo, mentre la presenza di un ponte richiama il legame che si instaura tra mondo terreno e celeste. Galline e altri animali, infine, hanno il compito di rappresentare la vita quotidiana, a sottolineare il fatto che la salvezza irrompe non con eventi eccezionali, ma nella vita ordinaria di ogni uomo.

La grande varietà dei mestieri coinvolti nella scena – idealmente si vorrebbe comprendere tutto il mondo – spalanca al soggetto la possibilità di riconoscervisi, di percepirsi parte della realtà rappresentata: quel che si descrive, cioè, non è appena un evento del passato, ma qualcosa che si connette direttamente con il presente, qualcosa che ha a che fare con la vicenda personale di ciascuno. Ciò si declina in quella che Staiti, nel libro citato, definisce regionalizzazione e attualizzazione della scena: la caratterizzazione di un singolo presepe attraverso elementi (costumi, strumenti musicali o altri aspetti accessori) che appartengono specificamente al determinato contesto in cui l’opera si colloca. Così, accade che – come scrive Marino Niola – “in Tirolo la grotta di Betlemme si trasferisce sulle Alpi (…), in Germania i pastori (…) vestono i panni dei montanari bavaresi, mentre quelli dei presepi latinoamericani indossano i tradizionali costumi andini e la savana con gli animali selvaggi fa da paesaggio ai presepi africani”. Rievocare la buona novella non idealmente, non astrattamente, bensì incarnata in un ben preciso contesto, significa sottolineare in modo definitivo l’hic et nunc degli eventi salvifici, che emergono d’un tratto come avvenimento presente. Il presepe “a poco a poco – aggiunge Niola – assume una caratterizzazione sempre più territoriale, con il risultato di dare alla Galilea forme e caratteri: nazionali, regionali, urbani, paesani, marinari, campagnoli. Tutti riprodotti con dovizia di connotazioni sempre più particolaristiche e localistiche”. 

Ecco dunque che nel corso del tempo molte altre attività (fino agli estremi caricaturali dei personaggi del nostro tempo) prendono posto – legittimamente, se autentica è l’idea che vi sta a fondamento – all’interno del presepe. Come ci spiega ancora Staiti, l’idea fondamentale è che i personaggi “finiscono per rappresentare una sorta di compendio delle attività umane” e “il presepe diviene una finestra aperta sul mondo brulicante di persone e fervente di industrie”. L’obiettivo, cioè, è che ogni uomo possa più immediatamente sentirsi parte della rappresentazione, immerso nel racconto del mistero dei misteri, coinvolto in prima persona in quell’avvenimento che non smette di percuotere la storia.

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