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DIO, ECOLOGIA E LIBERTà

Giova alla Chiesa occuparsi di cose terrene come la crisi climatica? Un girotondo fogliante

Lo scorso 4 ottobre è stata pubblicata “Laudate Deum”, l’esortazione del Papa sulla crisi climatica. Il documento ha fatto discutere soprattutto perché definisce indiscutibile la natura antropica dei cambiamenti legati al clima. Il Foglio ha chiesto a diverse personalità di intervenire nel dibattito 

Lo scorso 4 ottobre è stata pubblicata “Laudate Deum”, l’esortazione del Papa sulla crisi climatica. Il documento, che il giorno successivo è stato presentato in Vaticano –  tra gli altri – da Giorgio Parisi, Vandana Shiva e Carlo Petrini, ha fatto discutere soprattutto perché definisce indiscutibile la natura antropica dei cambiamenti legati al clima. Il Foglio ha chiesto a diverse personalità di intervenire nel dibattito.

 

L’atto rivoluzionario di Francesco

Gli effetti della crisi climatica si fanno sempre più sentire a livello locale. Solo negli ultimi mesi si sono susseguite le alluvioni in Emilia-Romagna, in Lombardia, la grande siccità a sud, fenomeni di grandine improvvisa e temporali intensi, un’estate torrida, come quest’ultima che sembra non finire mai se anche in questi giorni – a ottobre! – abbiamo un clima estivo in quasi tutto il paese. E allora perché non reagiamo? La ragione sta tutta nella nostra natura umana (le neuroscienze lo spiegano bene da anni). Siamo pigri, amiamo le abitudini, procrastiniamo le decisioni, siamo inclini a fare quello che fanno gli altri. Ci costa fatica capire e fatica cambiare. Siamo benevoli con le omissioni, con le cose non fatte, con le parole a cui non fanno seguito i fatti.  Il nostro cervello tende a condannare i gesti negativi (inquinare un fiume) e a perdonare le omissioni (non prendere provvedimento contro l’inquinamento dell’aria). Gli omissis, quello che ciascuno di noi potrebbe fare e invece non fa, quello che un decisore potrebbe fare e non fa, quello che un politico potrebbe fare e non fa, viene valutato meno che l’errore fatto, anche se piccolo e trascurabile.  

Per questo motivo dovremo impegnare la nostra intelligenza a plasmare “in modo ecologico” i luoghi dove le persone vivono, consumano, lavorano, si muovono. Le città sono il posto giusto dove educare e orientare i comportamenti di migliaia di persone contemporaneamente. Perché sia facile, a portata di tutti e socialmente desiderabile, vivere in modo più sobrio. Solo un’azione convergente tra chi si muove per passione e chi per interesse potrà sortire dei risultati concreti; c’è bisogno del coinvolgimento di quella che possiamo definire la larghissima schiera dei “disimpegnati”. Che ci piaccia o no, la differenza la faranno i grandi numeri, capaci di modificare i comportamenti delle persone su larga scala, perché conteranno in modo davvero determinante le nuove e più corrette abitudini di un grandissimo numero di persone, piuttosto che le radicali conversioni di pochi. Ecco perché Francesco parla alla politica e alle imprese, che hanno la grandissima colpa di non voler cambiare nulla dell’attuale modello di crescita.

Il messaggio di Papa Francesco viene spesso recepito con più benevolenza dai laici che dentro alla Chiesa. Molti cattolici sono ancora distanti, per cultura, da un pensiero ecologista, ritengono che la fede riguardi la dimensione privata e poco abbia a che fare con la responsabilità verso l’ambiente, i poveri, gli immigrati. Per questo Francesco compie un atto rivoluzionario quando parla di “antropocentrismo situato”, ripensando l’uomo in relazione alla natura. Siamo legati in modo indistinguibile al destino degli altri viventi, siamo legati da legami invisibili in una comunione sublime. Un approccio che altre religioni hanno coltivato da tempo. Per cambiare rotta sono certamente importanti le scelte personali, le scelte di consumo e di stile di vita, ma dobbiamo fare un salto di scala e dare un segnale anche come comunità locali: piantare alberi (trilioni, come dice Stefano Mancuso), costruire comunità energetiche locali, ripristinare pratiche di consumo critico e di acquisto a chilometro zero, recuperando la relazione tra chi produce e chi consuma, ridurre il consumo di carne e l’uso delle plastiche.

E soprattutto esigere risposte concrete dalle amministrazioni, svolgere un ruolo critico e di pungolo; dalla mobilità a 30 chilometri all’ora, alle domeniche senza auto, dalla de-pavimentazione delle strade minori, alle strade scolastiche senza auto, dalla piantumazione in aree urbane per mitigare le isole di calore, alla riduzione del consumo di suolo e all’edilizia sostenibile, dalla raccolta dell’acqua piovana, alla sostituzione dove possibile di cemento e asfalto con materiali drenanti e capaci di assorbire acqua. Sono tutte soluzioni con immediato impatto sulla qualità della nostra vita: non solo dobbiamo farlo, ma ci conviene. Non è solo una responsabilità etica, è anche un sano egoismo che dovrebbe spingerci al cambiamento. 

Elena Granata, professore di Urbanistica presso il Dipartimento di architettura e Studi urbani del Politecnico di Milano, vicepresidente della Scuola di Economia civile. Membro del Comitato delle Settimane Sociali dei cattolici in Italia

 

Il mondo che lasciamo è migliore di quello che abbiamo ricevuto

Negli ultimi quarant’anni le emissioni mondiali di anidride carbonica sono quasi raddoppiate. Quasi tutto l’aumento è avvenuto in Asia. Da inizio secolo, la CO2 prodotta nella Ue è diminuita del 25 per cento e del 20 per cento negli Stati Uniti; quella di Cina e India è triplicata. Si è nel frattempo fortemente ridotto il divario delle emissioni pro capite: nel 1982 negli Stati Uniti erano pari a dieci volte quelle cinesi, oggi il rapporto è di due a uno. Solo grazie all’uso dei combustibili fossili è stato possibile per centinaia di milioni di persone uscire dalla povertà. Se l’Asia non si fosse sviluppata e, invece, fosse rimasta quasi ferma come l’Africa, il problema del cambiamento climatico sarebbe oggi molto meno pressante. Ma possiamo pensare che sarebbe un mondo migliore? E’ della scorsa settimana la notizia che, dopo la battuta d’arresto dovuta al Covid, la povertà nel mondo ha ripreso a scendere e ha raggiunto il livello più basso di tutta la storia dell’umanità. E ha ricominciato a crescere l’aspettativa di vita che quest’anno raggiungerà i 73,4 anni. Non siamo mai stati così in tanti e non abbiamo mai vissuto così a lungo. Le previsioni di imminente collasso del pianeta a causa della sovrappopolazione che risalgono a mezzo secolo fa si sono rivelate del tutto infondate. 

Le emissioni fanno male al clima e agli ecosistemi ma non si dovrebbe scordare l’altro lato della medaglia: et et. Grazie all’energia fossile e alla crescita economica che ne è stata in buona misura debitrice, siamo oggi in grado di difenderci dal clima meglio di quanto sia mai accaduto in passato. Il numero di morti per eventi estremi è crollato rispetto a cento anni fa. Un identico uragano fa molte più vittime ad Haiti che negli Stati Uniti così come un terremoto in Marocco e uno della stessa intensità in Giappone. I fenomeni estremi fanno male ma la povertà fa molto più male. Il clima è importante per la vita ma la vita è molto di più rispetto all’impatto che il clima ha su di essa. Il mondo che lasciamo i nostri figli, nonostante il clima peggiore, è nel complesso molto migliore di quello che abbiamo ricevuto dai nostri genitori. E, lo ha ricordato sulla prestigiosa rivista Nature Brian C. O’Neill, scienziato dell’Ipcc, il futuro che ci attende sarà con ogni probabilità migliore del presente pur se cresceranno gli impatti negativi del cambiamento climatico. Sono stati dunque ingannati tutti quei giovani – da un recente sondaggio sembrano essere la maggioranza – che dicono di esitare ad avere figli perché destinati a vivere in un mondo in sfacelo.

Ridurre le emissioni è necessario, soprattutto come “polizza di assicurazione” per eventi assai improbabili allo stato attuale delle nostre conoscenze ma che non possiamo escludere con certezza. Ma dovremmo farlo con intelligenza e consapevoli che quello che faremo noi occidentali sarà sempre meno rilevante. In base ai risultati riportati in un altro recente articolo scientifico su Nature, la decrescita economica e una profonda trasformazione nei paesi ricchi ridurrebbero le emissioni solo del 10 per cento. E, se questa strada fosse intrapresa in tutto il mondo, il numero di persone che vivono in condizioni di povertà aumenterebbe di 2,4 miliardi nel 2050 e 7,9 miliardi nel 2100. Le emissioni fanno male ma non dovremmo dimenticare che possono fare anche molto male le politiche adottate per ridurle. La strada maestra da seguire dovrebbe essere quella della innovazione tecnologica, senza preclusioni e senza illudersi che ci siano alternative a rischio zero, quella che già ci ha consentito di migliorare radicalmente la qualità dell’aria senza rinunciare a riscaldarci o a spostarci in auto.

Francesco Ramella, analista di politiche pubbliche. Direttore esecutivo di Bridges Research Onlus

 

L’Apocalisse è già realtà

Papa Francesco non smette di stupirci. Devo confessare – e il verbo non potrebbe essere più appropriato – che non mi sarei aspettato di essere così radicalmente d’accordo con un’esortazione apostolica. Il messaggio è semplice, efficace, anche se poi, a leggere bene, forse presenta delle sfumature più sottili e per questo rilevanti. Il cambiamento climatico è una minaccia per la sopravvivenza della vita sulla Terra e gli sforzi fatti finora non hanno dato i risultati sperati. Non a caso la lettera è proprio una esortazione ad agire, rivolta per altro non ai soli credenti ma a tutte le persone di buona volontà. Fin qui, forse, il Papa non avrebbe dato troppo fastidio, magari solo agli ultras del negazionismo climatico. Ma Francesco sceglie di non rimanere su un terreno di facile unanimismo. Ho apprezzato molto la sua posizione sulle azioni dei cosiddetti “gruppi radicalizzati”, come li chiama il Pontefice, che giustamente sottolinea il loro ruolo di supplenza di fronte a una società civile spesso anestetizzata. Ugualmente cruciale il ragionamento proposto da Francesco sul controllo – oserei dire sulla proprietà – della tecnologia.

La sua non è solo una esortazione a non dominare la natura con la tecnologia, ma diventa – o almeno a me sembra diventare – un discorso sul controllo della tecnologia e della scienza e, dunque, sulle diseguaglianze ed il potere. E qui c’è probabilmente un altro nervo scoperto toccato dal Pontefice. Non contento di mettere al centro della sua esortazione apostolica la crisi climatica, Francesco ci ricorda che non si tratta di un apocalisse futura ma di qualcosa che sta già avvenendo oggi e che tocca non tutte e tutti nello stesso modo. La lettera cita un documento dei vescovi africani che definiscono il cambiamento climatico “un esempio scioccante di peccato strutturale” – usando un linguaggio caro alla teologia della liberazione che non ci si aspetterebbe in una lettera apostolica. Non solo qualcuno paga un prezzo più alto alla crisi climatica; anche le responsabilità non sono equamente distribuite. E Francesco, a mio parere a ragione, preferisce parlare di emissioni pro capite piuttosto che nazionali quando al punto 72 della lettera confronta l’impronta ecologica – precisamente le emissioni di CO2 – dei cittadini  statunitensi, cinesi e dei paesi più poveri. Non credo che sia un endorsement vaticano alla Cina ma semplicemente un dato di fatto, per altro in linea con la posizione generale della lettera sulla necessità di un impegno personale per il cambiamento. E’ questo un punto controverso e rilevante di questa esortazione apostolica. Al paragrafo 71, Papa Francesco manifesta il suo apprezzamento per gli sforzi delle famiglie volti a limitare gli sprechi e l’inquinamento; uno come me, ad essere onesto più in linea con il “peccato strutturale” che con le responsabilità individuali, potrebbe essere insoddisfatto da questa piega dalla lettera apostolica. Invece credo che Francesco sia riuscito a coniugare questo impegno individuale, in effetti molto presente nelle culture ambientaliste, con un appello all’azione collettiva e alla mobilitazione sociale. Non a caso proprio in quel paragrafo si legano queste azioni individuali alla costruzione di una responsabilità collettiva che passa attraverso “l’indignazione per il disinteresse dei potenti”. Diceva uno slogan di qualche tempo fa che il personale è sempre politico; aggiungerei che l’ecologia è sempre politica e quindi personale.  

Marco Armiero, è ICREA  (Catalan Institution for Research and Advanced Studies) Research Professor, Institut d’Història de la Ciència (IHC) Universitat Autonoma de Barcelona, Spain. In Italia ha una posizione di dirigente di ricerca presso l’ISMed Cnr. Da poco in libreria per Einaudi il suo “La tragedia del Vajont. Ecologia politica di un disastro” (160 pp., 12 euro)


Il Papa colpevolizza la specie umana

“Il diavolo si vede nei particolari” vale anche per gli scritti di Papa Francesco. E quel riferimento contenuto nel recente documento papale agli indigeni che, loro sì, vivono in armonia con la natura svela molte cose. La lunga marcia dell’umanità per uscire dalla povertà e dalle privazioni, liberandosi almeno parzialmente dal dominio della natura sulla sua vita, dalla paura del freddo e del buio, è sostanzialmente da condannare. Insomma e in sintesi un manifesto di rifiuto della modernità e del suo motore principale, vale a dire l’ innovazione tecnologica. Che tra parentesi è l’ unica risorsa con la quale possiamo affrontare la transizione ecologica sperando di vincerla. L’impostazione politica di tutta l’esortazione apostolica è evidente. Sono il capitalismo, l’occidente e la tecnocrazia i responsabili della prossima apocalisse. Raramente si era visto un testo papale cosi mondano. Francesco si addentra, prendendo posizione, nella discussione scientifica sulle cause del riscaldamento climatico, prende posizione sulle responsabilità dei diversi paesi, gli Stati Uniti, prima di tutto e spiega ai potenti della terra come debba essere il nuovo multilateralismo. Si leggono dietro le righe le idee di Jeffrey Sachs, il principale consigliere del Papa in questa materia. Un professore americano che sostiene che la guerra russo ucraina è responsabilità della Nato, che la Cina ha ragione nel confronto con gli Stati Uniti e che il Covid è nato in un laboratorio americano. 

Quanto giovi alla missione evangelica della Chiesa cattolica questo coinvolgersi a fondo in questioni assai terrene è questione che lascio ai teologi. Ma spiega abbastanza bene il successo di vari santoni new age che rispondono a modo loro al bisogno di spiritualità dell’essere umano. Alla visione di Francesco che colpevolizza la specie umana preferisco le sagge parole di Ratzinger che già nel 1991 diceva in una predica a Monaco”: va prendendo piede un nuovo atteggiamento deleterio, che vede l’uomo come un guastafeste e che è il vero parassita e la vera malattia della natura. L’uomo non ha più simpatia per se stesso, preferirebbe ritirarsi, affinché la natura ritorni sana. In questo modo non guariamo la natura, bensì distruggiamo noi e con noi il creato”. 

Chicco Testa

       

Una grande opportunità mancata

Non mi fa piacere identificare il problema essenziale che sta al cuore della recente esortazione apostolica di Papa Francesco, “Laudate Deum”: essa condanna il progresso economico prodotto dalla Rivoluzione industriale dalla metà del XIX secolo a oggi. Quel progresso che ha reso la vita migliore proprio per le persone che il Santo Padre vuole aiutare. Il Santo Padre dice che con l’avvento della Rivoluzione industriale l’emissione di gas serra “ha accelerato significativamente” e che “più del 42 per cento delle nuove emissioni totali dal 1850 sono prodotte dopo il 1990” (par. 11) E’ comprensibile che mentre il mondo intero veniva liberato dalla povertà di sussistenza che esisteva fin da quando comparvero gli esseri umani, alcuni impatti sull’ambiente potevano essere avvertiti se si stavano facendo dei progressi. Per contestualizzare tale quadro, è sufficiente considerare che nello stesso periodo la durata della vita è aumentata e la mortalità diminuita. Tra il 1800 e il 1950, la proporzione della popolazione mondiale che vive in condizioni di estrema povertà si è dimezzata; dal 1950 al 1980 si è dimezzata di nuovo. Ciò che è accaduto è la definizione stessa di cosa significhi essere responsabili.

Non c’è dubbio che potrebbero verificarsi alcuni impatti ambientali e che questi sarebbero naturalmente misti. Questi sono chiamati compromessi. Ad esempio, l’aumento dell’uso di energia indotto da una maggiore produttività (ad esempio, i trattori) ha aumentato l’emissione di gas serra. Ma ulteriori progressi tecnologici (motori più efficienti o fonti di energia alternative) hanno mitigato questi effetti e studi recenti indicano che queste tendenze positive sono in aumento. Si tratta di uno schema ricorrente. La cosa più frustrante che vedo in “Laudate Deum” è l’opportunità mancata che rappresenta. Non c’è fine alla pletora di studi, libri, documenti e articoli prodotti dalla comunità scientifica sulle sfide portate dalla crescita economica e dal suo impatto sull’ambiente. In effetti, il Papa ne cita molti nella sua esortazione. Ciò che purtroppo manca, e che rappresenta il contributo unico che il Papa avrebbe potuto dare, proviene dalla sua stessa competenza, quella che gli economisti chiamano “vantaggio comparato”. La competenza del Papa non è la scienza del cambiamento climatico; è l’ispirazione morale che manca nella sua lettera.

Ciò è ironico in quanto la soluzione che il Papa cerca si riduce in ultima analisi proprio a questa competenza: convertire l’ambiente morale, che sia quello del “paradigma tecnocratico” che egli condanna (cioè l’economia di mercato privata che elabora le soluzioni al problema della scarsità senza una visione morale dell’insieme), o il rimedio politico visto nella sequenza di conferenze sul clima per le quali egli nutre grandi speranze e che enumera – ammettendo però che questi sforzi sono in gran parte falliti. E’ sconcertante vedere che il capo di un’istituzione di duemila anni, con un’ampia esperienza nello sviluppo morale umano, che ha costruito le istituzioni più efficaci e migliorative che il mondo abbia mai visto (ad esempio, la carità organizzata e internazionale, l’università, l’ospedale e altro ancora), si accontenti della retorica di un libro bianco di una Ong di medio livello.

Rev. Robert Sirico, presidente emerito dell’Acton Institute