(foto LEV) 

La fine del nostro mondo cristiano. Parla il teologo Adrien Candiard

Matteo Matzuzzi

"Chi può credere sul serio, oggi, che quando si farà la storia del nostro secolo si dirà che il Covid è stato un cambio epocale? Nessuno". Il Bene e il Male, il peccato "ridicolizzato", la Chiesa vista dalla periferia. Intervista al teologo francese trapiantato al Cairo

Adrien Candiard, domenicano, è uno degli autori di spiritualità più letti in Europa”, recita la quarta di copertina di Qualche parola prima dell’Apocalisse. Leggere il Vangelo in tempi di crisi, volume che la Libreria editrice vaticana (80 pp., 11 euro) ha da poco pubblicato. E’ vero, Candiard è letto ovunque, dalla Francia natìa all’Italia, fino al Cairo dove risiede (all’Institut dominicain d’études orientales). Giovane –  ha quarantuno anni – conosce bene la teologia quanto la politica: ha fatto parte della squadra di Dominique Strauss Kahn, cui scriveva i discorsi. Oggi è frate e si interessa di islam. A conferma che i sentieri della vita sono davvero infiniti e meritano sempre d’essere esplorati. Con lui discutiamo di tempo presente e di fede, più forte in qualche contesto (il sud del mondo, ad esempio) e sempre più tiepida nell’occidente distratto da mille incombenze gravi,  dalla guerra alla precarietà o, più banalmente, da quanto trasmette incessantemente lo schermo di uno smartphone dove pare racchiudersi tutto il mondo. Chi meglio di lui dunque, francese trapiantato in Egitto, ha la giusta percezione per guardare lo stato del cristianesimo? Sbagliato. O meglio, la prospettiva può essere anche giusta, ma i discorsi sul fatto che la crisi si vede meglio da lontano, dalle terre di nuova evangelizzazione, lo annoia. Vale fino a un certo punto, “soprattutto non vale se l’idea è quella di riempire la crisi della Chiesa occidentale con manovalanza africana o asiatica”. L’esempio aiuta a comprendere cosa intenda: “Le suore del Madagascar hanno tanto da fare in Madagascar, anche sul terreno della missione, non portiamole qui ad assistere le suore anziane nella vecchia Europa”. Strana epoca questa: “Proprio quando dovremmo drizzare le orecchie verso Gesù che ci parla di guerre, epidemie, carestie e catastrofi naturali, quando abbiamo più che mai bisogno di aiuto e di senso, il più delle volte preferiamo saltare la pagina e andare a cercare nel Vangelo versetti più solari”, scrive nell’Introduzione. Strano essere è l’uomo, insomma: “Le strategie di neutralizzazione dell’ingombrante discorso apocalittico arrivano a vanificarsi precisamente quando la realtà ci raggiunge, quando si fa più difficile che mai rileggere questo discorso senza pensare alla nostra attualità”. 

 

Con lui, che è un esperto di spiritualità e su questo tema tanto ha scritto, partiamo dal punto di svolta che per qualche mese sembrava aver risvegliato una sorta di interesse religioso nei cuori degli uomini del nostro tempo: la pandemia con la sfilata dei camion ricolmi di bare, il lockdown forzato, i funerali impossibili, le terapie intensive allo stremo. E la Morte che tornava a essere davvero sorella, compagna della vita, presente come non lo era più stata per decenni. Il tabù che veniva rotto. Tra un “andrà tutto bene” e un coro dai balconi si tornava a parlare di Dio. Ma come l’abbiamo fatto? Eravamo preparati? Ne abbiamo parlato con profondità o con superficialità? “Con superficialità, è un discorso che si è fermato lì, a quei mesi”, dice subito Candiard: “Chi può credere sul serio, oggi, che quando si farà la storia del nostro secolo si dirà che il Covid è stato un cambio epocale, che tutto è cambiato? Nessuno. Già oggi, anche se in Italia si ricorda quell’esperienza un po’ di più rispetto all’Europa, nessuno neanche bada più ai cartelli sull’uso obbligatorio delle mascherine. Ma è normale, la gente vuole vivere. Forse sul momento abbiamo avuto l’impressione di sperimentare qualcosa di nuovo, ma poco dopo siamo tornati alla normalità. E dico, menomale. Pensare che cambiamenti nella vita e nel rapporto con la spiritualità si facciano in tempi così rapidi, significa dimenticare chi siamo e cioè la nostra capacità di dimenticare presto, passando ad altri argomenti. Non eravamo ancora usciti dal Covid e c’era già la guerra in Ucraina. Fatico a pensare la pandemia come a un cambiamento radicale. Il fatto è che non l’abbiamo presa sul serio. Per fortuna, mi viene da dire: Dio non è qua per colmare le nostre angosce e questa è una conquista della modernità. Dio non è colui che serve a curare le nostre paure e le nostre ignoranze e grazie al Cielo abbiamo progressivamente eliminato  questa idea di Dio, perché questo non è il Dio del Vangelo. Dio non è un’ipotesi fisica o biologica, e quindi questo Dio possiamo lasciarlo morire tranquillamente”. E’ poi quanto scrive nel suo libro, “restiamo orfani del mito del progresso e saremmo ben felici di trovargli un surrogato cristiano, una garanzia divina che, a parte alcune peripezie, andrà tutto per il meglio”. 

 

Un’epoca, questa, in cui il grande assente sembra essere il peccato che neanche nelle chiese si sente più nominare: “L’abbiamo ridicolizzato, ne abbiamo fatto una cosa infantile. ‘Ho mangiato Nutella il Venerdì santo’, ci pare una trasgressione di un ordine completamente arbitrario, il non aver obbedito a un comandamento. Ma questo è un rapporto infantile con Dio; una relazione in cui dobbiamo obbedire perché l’ha ordinato Lui che ha la possibilità di spedirci all’Inferno. Questa puerilità porta alla sottomissione o alla rivolta, perché è naturale che ci si ribelli a questa immagine del divino. Ma Gesù ci dice che non vuole né la sottomissione né la rivolta. Cristo agli apostoli dice ‘non vi chiamo servi, ma amici’, e spiega loro questa frase. Amici perché ‘tutto quello che ho visto dal Padre ve l’ho fatto conoscere’. Cioè, avete capito tutto. Gesù non dice ‘fate così, poi ci penso io’. Noi ci troviamo con Dio in una relazione adulta fondata sulla libertà, sulla nostra libertà di capire dove andiamo. Il peccato non è la trasgressione di un comandamento arbitrario, ma il fatto di farsi del male. Il Male noi lo dimentichiamo quando pensiamo al peccato come a una cosa per fare paura ai bambini nelle ore del catechismo, quando i genitori dicono ai loro figli di fare i bravi perché altrimenti il Signore poi si arrabbia. Questo ci fa dimenticare completamente le nostre responsabilità e cioè che i nostri atti hanno delle conseguenze. Se ci pensiamo, questa è una cosa strana: Dio ci ha dato la possibilità di fare il male, ma anche il bene. Quando parliamo di religione, tutto questo lo scordiamo sempre. E oggi ci troviamo davanti alle conseguenze dei nostri atti, dalla guerra con il rischio nucleare alla crisi ambientale. Ma senza parlare di peccato, perché appena ne abbiamo la tentazione, pensiamo subito all’alone moralizzante”. 

 

Ma non è che di questo è responsabile anche la Chiesa, che sovente preferisce i discorsi melensi, le omelie vuote o semivuote, i pensierini banali sulla bontà e la gioia? “Certo, il fatto di non prendere sul serio la nostra libertà vale anche per il clero. Lo si vede benissimo in riferimento agli abusi spirituali. Peccare non significa agire contro il ‘bene’ morale, ma agire contro se stessi. E questo lo si comprende a fatica”. Ma oggi credere è più difficile rispetto ai tempi passati, quelli della Chiesa trionfante e della cristianità come terreno sociale e culturale oltreché religioso? “Dipende dal senso che diamo alla parola credere”, risponde Candiard: “Ovviamente ci sono stati secoli, anche lunghi, in cui Dio era ovvio. Penso al Problema dell’incredulità nel secolo XVI. La religione di Rabelais di Lucien Febvre. Questi, che non era credente, ha dimostrato che Rabelais non poteva essere ateo, non aveva gli strumenti mentali per esserlo. Credere era più facile, nel senso che non se ne poteva fare a meno. Ma se parliamo di fede, è un altro discorso. La fede non è credere soltanto che Dio esiste, ma è la fiducia in questo Dio. Credere insomma non soltanto che Dio esiste, ma anche che vuole il mio bene. Seguire Dio non significa obbedire a chi è più potente di me, ma cercare il proprio bene. E questa fiducia non è mai stata semplice, in alcuna epoca: è una sfida per tutti, se posta su tale livello”. 

 

Peccato e Male. Candiard ci torna spesso, scrive che l’intento di Gesù, con il suo discorso di apocalisse, è di farci vedere dove può condurre questo Male. Ma noi uomini del 2023 siamo in grado di capirlo? “Proprio lo sviluppo scientifico e il progredire delle scienze umane ci danno una conoscenza delle nostre azioni molto più precisa rispetto a un tempo. Siamo molto più coscienti di prima rispetto a un sacco di cose. Faccio un esempio molto attuale: oggi sappiamo la portata del danno che fanno gli abusi sui bambini. Probabilmente, cinquant’anni fa non avevamo questa sensibilità”. Ne sappiamo di più, siamo più sensibili, eppure spesso sembriamo più superficiali. Torna di nuovo la massima rassicurante “andrà tutto bene, per il meglio”, quasi una considerazione consolatoria e autoassolutoria. “Noi – dice il domenicano francese – abbiamo bisogno di senso. Kant ci insegna l’idea che il progresso è un’idea regolatrice che non esiste nelle cose, ma nella nostra mente. Forse non il progresso, ma almeno il senso delle cose. Progresso o decadenza, tanto sono uguali. Cerchiamo sempre di vedere, anche nella vita privata, il senso di quanto ci capita. L’uomo è un animale che ha bisogno di senso, che preferisce avere un senso assurdo piuttosto che non averlo proprio. In sostanza, preferiamo un senso ridicolo all’assenza di senso. E lo vediamo anche nella Storia: vogliamo conoscere la direzione in cui stiamo andando, altrimenti tutto diventa angosciante. Gesù, invece, non ci offre né il progresso né la decadenza, ma ci dice che nel campo crescono insieme il grano e la zizzania. E noi non possiamo lasciar crescere l’una senza che al contempo cresca anche l’altra. La nostra Storia è fatta di questa mescolanza, noi non riusciamo a separare le cose, il bene dal male, e questo resterà fino alla fine. Ci dà un po’  fastidio, ma se ci pensiamo bene è anche interessante: così, riusciamo a vedere tutti i limiti delle conquiste del progresso”.

 

Ammesso che l’uomo di oggi riesca a cogliere questi limiti, disorientato com’è. Si tratta di capire – per citare un passaggio contenuto in un altro libro di Candiard, La speranza non è ottimismo (Emi, 2021) – se siamo in grado di “guardare la notte così come si presenta” avendo “amore per il reale”. La notte, si sa, può essere ottima consigliera, Thomas Merton scriveva che “il mio monastero è la notte”, perché solo con la notte riusciva a vedere il reale. Ma oltre all’uomo, anche la Chiesa occidentale è immersa in questa notte, in questa crisi che apparentemente sembra essere senza soluzione? “La crisi dell’Istituzione è ovvia a tutti, ma il discorso sull’occidente che sta male mentre il resto del mondo sta bene ha i suoi limiti. La Chiesa è romana, e quindi occidentale. E ancora oggi si appoggia, non solo sul piano economico, ma anche su quello culturale e intellettuale, sull’occidente. Se pensiamo di salvare le nostre vecchie istituzioni con Chiese giovanissime, non facciamo altro che perderci in altre illusioni. Le Chiese d’Africa e d’Asia hanno altro da fare, anche sul piano missionario. L’idea di importare ‘manodopera’ da lì è solo un modo per non affrontare la crisi. Io dall’Egitto cosa vedo? Vedo una Chiesa cattolica che non ha più missionari, le suore – sempre più anziane – non riescono a tenere in piedi ospedali e scuole. E’ ora di comprendere che non tutto può andare avanti come è sempre stato. Dobbiamo accettare che del nostro mondo cristiano tra qualche decennio resterà poco in piedi e la domanda è se siamo disposti ad accettare ciò. Cosa merita di restare in piedi? Ecco, la crisi è interessante per questo, perché porta a domandarci cosa meriti di rimanere tra noi e con noi. Il resto non è essenziale, lasciamolo pure morire. Non impieghiamo ogni nostra forza per salvaguardare tutto così com’era e   com’è. Questa strada porta alla certezza della morte. Se vogliamo salvare qualcosa, dobbiamo scegliere. In Francia c’è una presa di coscienza su questo, sul fatto che il mondo sta cambiando velocemente. In Italia, meno. Qui la Chiesa è stata forte, a lungo, per non vedere che grandi pezzi della società erano già fuori dalla società cristiana. Però le chiese erano piene, tutti andavano a catechismo. Era l’illusione della cristianità che non sembrava poter finire mai. Adesso anche in Italia vediamo che non era così e forse il Covid, sotto questo punto di vista, ha portato alla luce una realtà diversa rispetto a quella immaginata, che pareva inscalfibile. La pandemia, più che un ritorno della spiritualità, ha mostrato che il re è nudo e che anche l’eccezionalità italiana è finita”.
  

Di più su questi argomenti:
  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.