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Is God Dead?

L'America senza Dio mette in discussione le sue fondamenta

Matteo Matzuzzi

La nazione che si credeva eletta da Dio si scopre sempre più indifferente al fenomeno religioso. Le chiese protestanti chiudono da un capo all’altro della mitica frontiera, pochi giovani dicono di avere fede in una “entità superiore”

“In God we trust”, noi crediamo in Dio. Ed è un po’ il terreno su cui è stata costruita la città sulla collina, che illumina il mondo dall’alto della sua vicinanza a Dio che vede e provvede e che garantisce la prosperità e la forza della nazione americana. E’ il mito fondativo, il Dna della federazione, ciò che tiene insieme l’est e l’ovest, l’Atlantico e il Pacifico. Lo sapeva bene Ronald Reagan, che nel suo messaggio d’addio fece una postilla al suo commosso intervento: “Questo è tutto quello che ho da dire stasera, ma c’è ancora una cosa. Negli ultimi giorni, quando mi sono affacciato a quella finestra al piano di sopra, ho pensato un po’ alla ‘città splendente su una collina’. La frase viene da John Winthrop, che la scrisse per descrivere l’America che immaginava. Ciò che immaginava era importante perché era uno dei primi pellegrini, uno dei primi uomini della libertà. Ha viaggiato fin qui su quella che oggi chiameremmo una barchetta di legno; e come gli altri pellegrini, cercava una casa libera”. Il nuovo mondo che aveva salvato quello vecchio, prima finito a massacrarsi nelle trincee e poi infatuato di fasci e croci uncinate; l’America che teneva a bada l’orso al di là della cortina, che la libertà negava con purghe e sfilate di carri armati nelle capitali europee. Poi la cortina è venuta giù, il mondo è cambiato ma la storia – nonostante entusiastiche profezie e previsioni degli addetti ai lavori – non è finita. E l’America si è riscoperta più debole, tra avanzate nel mondo e ritirate da esso, fughe in avanti e indietro. Tornando solo ora, con la tragedia ucraina, a svolgere quel ruolo da protagonista che da tempo non aveva più. Ma nello stesso momento, mentre ritrova slancio nel mondo, si sfilaccia al suo interno. Gli americani non credono più. Non che sia una novità, già nel 1966 Time si domandava, in copertina, se Dio fosse morto (“Is God Dead?”).

 

Quel motto breve e totale, In God we trust, è buono ormai per gli uffici pubblici e per le banconote, forse per le t-shirt di qualche college, ma è uno slogan senza più quel senso onnicomprensivo che aveva un tempo. I numeri sono impietosi, la secolarizzazione – si dice – è arrivata fin lì, nonostante i giorni del Ringraziamento, le messe gospel, i film in cui si vedono le famigliole che alla domenica mattina vanno in chiesa ad ascoltare il bravo pastore, intonando inni e sfogliando la Bibbia. “Cos’è un pastore senza gregge?”, si domanda con pur rispettosa ironia l’Economist, dando le cifre del crollo secondo l’indagine condotta da Lifeway Research, organizzazione senza scopo di lucro accreditata di grande autorevolezza. Presto, dice il settimanale, molti pastori potrebbero essere chiamati a dare una risposta a tale angosciante interrogativo. I numeri: nel 2014 sono state chiuse 3.700 chiese protestanti, cifra salita a 4.500 nel 2019. Molte parrocchie non hanno abbastanza fedeli per restare in vita. Nel 1972, il 90 per cento degli americani si dichiarava cristiano. Ora lo fa il 64 per cento. Ma la discesa non è uniforme. L’associazione degli statistici americani che si occupa dei cambiamenti in materia religiosa, ogni dieci anni fa la scansione del “livello di fede” del paese. Migliaia di dati, scomposti per stato e confessione, forniscono un quadro tutt’altro che positivo. Al 2020, la crisi colpisce soprattutto i metodisti, i luterani e gli episcopaliani: la loro riduzione, si legge nel rapporto, è “allarmante”. Mentre i credenti complessivamente nel decennio 2010-2020 crescevano del 7 per cento (il boom dei latinos spiega molto), gli episcopaliani e i metodisti diminuivano del 19 per cento, mentre i luterani addirittura del 25. I presbiteriani hanno subìto una perdita netta di un milione di fedeli (il 40 per cento). La crisi non sembra invece toccare gli evangelici, ma anche qui non c’è da sorprendersi. La Southern Baptist Convention – il gruppo evangelico più numeroso e influente – ha subìto una contrazione “solo” dell’11 per cento. In ogni caso, comunque, sentenzia l’indagine, nessuna Chiesa protestante ha guadagnato membri. Vanno bene i cattolici, con un aumento del 5 per cento.

 

Ma qual è l’elemento che ha determinato il calo di fedeli negli Stati Uniti? Non sono stati gli scandali, che più o meno intensamente hanno coinvolto parecchie confessioni religiose, bensì la semplice anagrafe. A certificarlo è il Pew Research Center: la maggioranza dei cristiani in America ha più di cinquant’anni, un terzo più di 65. Solo un decimo dei credenti ha meno di trent’anni. La gente che in maniera indefessa occupava i banchi in chiesa muore, senza essere rimpiazzata da generazioni più giovani. Ma non è tutto qui, perché il secondo motivo che determina il calo è il numero delle conversioni. Poco più di un terzo degli americani fra i 30 e i 39 anni dichiara di non riconoscersi nella fede in cui si è formato, quella dei nonni e dei genitori. Il percorso inverso è stato seguito solo dal venti per cento dei pari età. Il piatto, dunque, piange. Anche il Wall Street Journal, nei mesi scorsi, segnalava che solo il 31 per cento degli appartenenti alla fascia d’età 18-29 anni riteneva la religione un fattore “molto importante” per la loro vita, il dato più basso riscontrato fra tutti i gruppi anagrafici. Il 24 per cento di loro assicurava di partecipare alle funzioni religiose “almeno” una volta al mese, il 4 per cento in meno rispetto a quattro anni fa. Non si tratta però di un crollo repentino, chiarisce il Pew Research Center: va avanti così da almeno un trentennio e se non ci sarà un’inversione di tendenza, nel 2055 gli Stati Uniti seguiranno la strada della Gran Bretagna, dove i “non credenti” costituiscono già il gruppo dominante e più numeroso della società.

 

Insomma, l’America che crede in Dio al punto da scriverlo ovunque e che fa dire al suo presidente al termine del giuramento “So help me God”, che Dio mi aiuti, si riscoprirà atea o, più realisticamente, indifferente alla questione. E se la città sulla collina rinuncerà a illuminare le praterie sottostanti, saranno guai. Qualcosa lo si vede già, basti pensare al riemergere prepotente della questione razziale, tema che come pochi divide e lacera la società. Già tre anni fa Joshua Mitchell, docente di Political Theory alla Georgetown University di Washington, scriveva sul Foglio che era finito l’antidoto alla crescente polarizzazione su base razziale, come si poteva vedere all’indomani dell’uccisione di George Floyd. Per decenni, gli americani avevano interiorizzato – chi più, chi meno – la lezione di Martin Luther King, e cioè che “porre fine al razzismo voleva dire chiedere all’America di essere all’altezza della propria aspirazione a trattare tutti i suoi cittadini secondo il principio dell’eguaglianza di fronte alla legge”. E i fondamenti erano quelli contenuti nella Bibbia, libro che si trovava in ogni casa d’America, da un capo all’altro. Scriveva Mitchell: “I protestanti americani erano ancora in grado di comprendere, a differenza di oggi, il senso che il libro dell’Esodo aveva per i neri d’America, così come il messaggio delle lettere di san Paolo che per ‘l’uomo nuovo’ rigenerato nello spirito non c’è più ‘né giudeo né greco, né padrone né schiavo, né uomo né donna” (Gal 3, 28). Con questo san Paolo intendeva anche dire che, senza questa rigenerazione nello spirito, gli uomini non sono altro che un aggregato di tribù in lotta tra loro e ognuna al proprio interno. Gli americani capivano ciò che questo significava. Se volevano essere cristiani, dovevano smettere di essere tribali. Non potevano più, per usare il linguaggio odierno, invocare le loro ‘identità’ e accontentarsi di fare quello.  Proprio perché erano cristiani, l’eguaglianza era importante. Il reverendo King parlava di eguaglianza ricorrendo ai passi delle scritture cristiane, e i credenti praticanti, sia bianchi sia neri, capivano la sua lingua”.

 

Ma oggi? “E’ rimasto assai poco di questa configurazione degli anni Sessanta”, scriveva Mitchell. “Le confessioni protestanti un tempo maggioritarie sono a tutti gli effetti crollate – uno sviluppo cominciato in modo serio quando i soldati tornarono dalla Seconda guerra mondiale con la loro fede scossa, se non distrutta. Dopo la fine della guerra del Vietnam, gli americani, demoralizzati, cominciarono ad abbandonare le loro chiese in grandi numeri. Oggi la pratica religiosa declina di anno in anno e la maggioranza degli americani dichiara di non aderire ad alcuna confessione. Nemmeno la Chiesa cattolica se la passa bene. Per la delusione dei conservatori, si è arresa alla cultura americana sul controllo delle nascite e sull’aborto. Cosa ancora peggiore, la sua dottrina si è ridotta alla ‘giustizia sociale’, al punto che alcuni conservatori si sono chiesti se nei suoi attuali insegnamenti non ci siano più Marx e Nietzsche che i venerabili Padri della Chiesa. L’educazione di una volta, impartita da suore immuni al dubbio con metodi severi e spesso umilianti, è morta decenni fa. Oggi, nelle scuole cattoliche come in tutte le altre, ogni bambino riceve un premio, ogni bambino è ‘speciale’. Il Dio dell’ira che giudica con severità è stato rimpiazzato da un Dio dell’amore che accetta ogni bambino arrogante e autoindulgente così com’è”. Il risultato, o quantomeno uno dei risultati di tale processo, è la polarizzazione tout-court che impera nella società: da un lato la visione liberal che sempre più tende a eliminare il fattore religioso, dall’altro una radicalizzazione crescente che rischia di condurre a un progressivo isolamento, alla chiusura in fortini – sempre più diroccati – da cui ravvivare il fuoco fatuo della stagione delle guerre culturali. Che poi è il tema di questo travagliato tempo: le due Americhe, ferocemente contrapposte che si negano vicendevolmente il riconoscimento.

 

Elemento di rilievo, che come detto non è nuovo – gli anni Novanta, in questo senso, sono stati determinanti – e che nel 2002 è stato per la prima volta notato da Michael Hout e Claude S. Fischer, sociologi a Berkeley, che sulla Sociological Review segnalarono il balzo degli americani “senza religione” dal 7 al 14 per cento in meno di un decennio. Il doppio. A giudizio di Hout e Fischer, la ragione principale dell’abbandono era proprio la crescente polarizzazione, l’uso della religione come strumento di lotta politica. Era insomma una “dichiarazione simbolica” contro la destra religiosa. Ipotizzarono, ormai più di vent’anni fa, che “l’alienazione dei liberal dalla religione organizzata” avrebbe potuto essere in futuro “istituzionalizzata”. Nel 2007, Ross Douthat scriveva sull’Atlantic che in parte, la destra religiosa è emersa come reazione a quella che è stata percepita come la crescente incidenza delle istituzioni politiche americane, alle decisioni della Corte Suprema che vietano la preghiera scolastica, all’influenza sproporzionata degli agnostici nel Partito democratico degli anni Settanta. Però, ed è qui che sta la differenza, “quel secolarismo tendeva a essere un fenomeno d’élite”, riguardava insomma gli intellettuali. Lo stesso Time, dopo essersi appunto domandato se Dio fosse morto, assicurava che “in America, a fede pubblica in Dio sembra essere sicura come lo era nella Francia medievale”.

 

Nei giorni scorsi ha fatto discutere uno studio dello Springtide Research Institute, che testimonia una ripresa di interesse verso la trascendenza. Un terzo di quanti appartengono alla fascia d’età 18-25 anni crede infatti nell’esistenza di un “potere superiore”. Qualche teologo ha voluto vedere subito il bicchiere mezzo pieno, un’inversione di tendenza. Ma entrando nello specifico si scopre che le idee in merito sono poche e per di più assai confuse. Questo “potere superiore”, infatti, assume il profilo di una “divinità benevola”, o forse, come spiega un ragazzo intervistato, “di più divinità insieme”. Magari, dice un altro, “un’entità”. Di sicuro, assicurano gli interpellati, se Dio esiste non ha niente a che vedere con le raffigurazioni che si sono date fino a oggi le religioni. Una diciottenne dell’Iowa, cresciuta in una famiglia cattolica, dopo anni di disinteresse si è interessata al trascendente, non andando a messa ma “seguendo persone sui social network che parlano del proprio credo”. Il che non è sbagliato, può essere un primo passo. I social, usati bene, possono servire anche come approccio evangelizzatore (sono stati scritti libri a proposito): il punto è non fermarsi lì. Sulle ragioni di questo rinnovato, e per ora minimo, interesse alla trascendenza, le spiegazioni concordano: il crollo di quelle che si ritenevano certezze immutabili e inscalfibili. Pandemia, paura di perdere il lavoro, crisi economica, rivolte razziali hanno prodotto caos e interrogativi, determinando la ricerca di un’àncora cui aggrapparsi. Una specie di conforto, Dio come “ultima risorsa disponibile”, nota un pastore battista al Wsj. Magari proprio quel Dio lasciato perdere negli anni in cui tutto andava più o meno bene, confinato nella credenza della nonna. Per l’America è una nuova rivoluzione che ne mette in discussione le fondamenta.

  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.