Joseph Ratzinger, 2008 (LaPresse)

Dall'archivio del Foglio

Ratzinger, teologo duro e mite che ha sempre difeso la fede dei semplici dai professorini snob

Lucio Brunelli

All’interno della gerarchia della Chiesa poche persone hanno suscitato tanta ammirazione e tanto odio. A torto o a ragione, si è sentito chiamato da Dio a una missione impopolare ma doverosa: difendere l’autentica devozione del popolo cristiano dalle manipolazioni degli intellettuali cattolici e dai condizionamenti della mentalità dominante

Ripubblichiamo l'articolo del 20 aprile del 2005 di Lucio Brunelli all'indomani dell'elezione di Joseph Ratzinger sul Soglio pontificio.



È ’figlio di un gendarme, un gendarme tedesco. E già questo potrebbe bastare, per i tanti che in lui amano vedere solo il “carabiniere di Dio”, o il “Prefetto di ferro della fede” con l’attitudine alla repressione e la familiarità col manganello iscritte nel Dna. È vero. Suo padre fu effettivamente un gendarme, e lo fu al tempo del Terzo Reich. Ma era un gendarme di paese, un buon cattolico bavarese, e quando la polizia politica inviava i nomi dei presunti sospetti di antinazismo, lui, il signor Ratzinger, invece di spiarli correva ad avvisarli del pericolo. Considerava Hitler un criminale. Anche il piccolo e gracile Joseph, nato la notte del Sabato Santo del 1927, imparò presto a detestare i nazisti e i loro riti pagani. Anche perché, nel seminario in cui entrò ad appena 12 anni, in ossequio alle moderne liturgie del Reich gli alunni erano costretti a due ore di attività sportive ogni giorno. “Per me, fisicamente inferiore a tutti i miei compagni, era una vera tortura” ricorderà il temuto “cardinale di acciaio”.

Nel suo stemma episcopale ha voluto che fosse rappresentato un orso. L’orso cattivo che aveva sbranato il cavallo di san Corbiniano, e che per punizione fu obbligato dal santo a caricarsi i suoi pesanti bagagli e portarli fino a Roma. E a conoscerlo un po’, forse anche lui sente come una punizione del destino il servizio che è stato chiamato a svolgere nella Curia romana. Un po’ orso, comunque, nei rapporti umani Joseph Ratzinger lo è. Ormai è a Roma da vent’anni, ma al di là dell’ufficio frequenta poche persone. E a differenza di molti suoi colleghi con la veste purpurea, raramente accetta l’invito alle cene e ai ricevimenti mondano-diplomatici. La persona che vede di più in assoluto è il fido segretario monsignor Josef Clemens, che nei confronti del capo ha un atteggiamento iperprotettivo. Nonostante la fama di inquisitore spietato, Ratzinger è una persona dai modi assolutamente cortesi: nessuno nel suo ufficio, il tenebroso palazzo della Santa Inquisizione, lo ha mai sentito alzare la voce. Ha persino un cuore: è iscritto a un’associazione di donatori di organi, e ha sempre considerato un “atto d’amore” il consenso all’espianto dopo la morte.

 

Suona il pianoforte, ama Mozart e Beethoven. Passione di famiglia: suo fratello Georg (anche lui prete, furono consacrati nello stesso giorno) è un apprezzato musicista, per decenni direttore della cappella del duomo di Ratisbona. Talvolta, e questo proprio non te lo aspetti nel panzer-kardinal, fa capolino anche lo humour. Come quando dovette presentare il documento vaticano sul mea culpa per gli errori del passato, e citò la battuta di un porporato ai tempi dell’invasione napoleonica: “Paura di Bonaparte? Se non ci sono riusciti i cardinali, finora, a distruggere la Chiesa…”. O quando gli chiesero come mai nella sua autobiografia non accennasse mai a innamoramenti giovanili: “L’editore mi aveva chiesto di non superare le cento cartelle”.

 

Quell’allodola sul duomo di Frisinga

Il guardiano dell’ortodossia cattolica naturalmente non è superstizioso e non legge gli oroscopi. Ma crede nei segni del destino. Quando fu ordinato sacerdote, il 29 giugno 1951, nel momento in cui il cardinale Faulhaber gli imponeva le mani, un’allodola si levò in volo dall’altare maggiore della cattedrale di Frisinga e intonò quello che a don Joseph apparve un piccolo canto gioioso. “Per me fu come se una voce dall’alto mi dicesse: va bene così, sei sulla strada giusta”. Ha fatto il viceparroco, a Monaco di Baviera, per un anno. Ma non era quella del curatore d’anime la strada giusta. Gli piaceva molto di più studiare, indagare le grandi verità cattoliche, messe a dura prova dal razionalismo. Intraprende la carriera accademica, e presto si afferma come uno dei più promettenti e preparati teologi del rinnovamento conciliare. Si immerge nella lettura dei Padri della Chiesa: Sant’Agostino, Sant’Ireneo, snobbando (ed era quasi eresia a quel tempo) la neoscolastica tomista. Si batte per restituire alla Rivelazione il suo carattere storico di azione divina, di contro alla sua cristallizzazione nella sola Parola. Dinamite teologica, roba da far sobbalzare sulle loro polverose cattedre i professoroni delle università pontificie romane. Se oggi Ratzinger è così inviso e persino odiato dai circoli cattolici progressisti è anche per questo suo passato, di pensatore cattolico certo non reazionario. Un risentimento inconfessabile. Il suo Grande Nemico, il teologo svizzero Hans Küng, forse non riesce a perdonarsi di essere stato proprio lui, nell’epoca del suo massimo splendore, a volere quel professorino bavarese nella prestigiosa Università di Tubinga, la top one dell’insegnamento teologico a livello mondiale.

 

E chi oggi finisce nel mirino della Congregazione per la dottrina della fede non può non ricordare con risentito sarcasmo che il colpo di grazia al vecchio Sant’Uffizio del cardinale Ottaviani (che infatti cambiò nome e procedure) fu inflitto durante il Concilio dal cardinale Frings di Colonia: il quale si faceva redigere i testi da un giovane e brillante teologo di nome Joseph Ratzinger. “Non sono cambiato io, sono gli altri a essere cambiati”. Replica così, sulle labbra il consueto disarmante sorrisino, a chi insinua maligno che abbia rinunciato alle sue idee progressiste per amor di poltrona, quando è diventato un dipendente vaticano. Nominato arcivescovo di Monaco e cardinale già da Paolo VI nel 1977, fu Giovanni Paolo II a sceglierlo nel 1981 come capo della più influente congregazione vaticana. Nessun “ministro” del governo papale è rimasto così a lungo (24 anni) allo stesso posto. Ratzinger ha detto in passato di non vedere l’ora di essere liberato dall’impegno, per tornarsene ai suoi amati libri. Ma Wojtyla non lo ha mai mollato. Tanta è la stima che il Papa polacco nutriva per il collaboratore tedesco, anche se fra i due non si è mai stabilito sul piano umano un rapporto di confidenza, di frequentazione che andasse oltre la collaborazione istituzionale. A livello internazionale è stata a lungo la rivista Concilium a guidare la guerra ideologica contro Ratzinger, a suon di slogan come “no al centralismo romano” e “sì al Vaticano III”. Era la storica rivista che radunava i grandi nomi della teologia cattolica conciliare. Il bello è che alla sua fondazione prese parte anche l’inquilino di Piazza del Sant’Uffizio. Ma Ratzinger non ha dubbi, sono loro, gli ex colleghi, ad aver tradito l’ispirazione iniziale. Erano partiti dall’idea di togliere tanta inutile polvere accumulatasi sulla facciata della Chiesa, per non ridurla a un museo di dogmi pietrificati, incomprensibili all’uomo di oggi. Ma poi avevano finito col buttar via il bambino con l’acqua sporca. E invece di tagliare i rami secchi, rischiavano di radere al suolo il tronco vivo della Tradizione.

 

Come Von Balthasar, il suo grande amico teologo, Ratzinger è convinto che sia giusto “abbattere i bastioni” e dialogare con altre culture e religioni. Ma, e lo ha ribadito spesso negli ultimi anni, con la Dominus Jesus e con altri interventi, è pronto a lanciare l’anatema contro chiunque declassi Gesù Cristo a uno dei tanti guru del grande pantheon delle religioni. Gli hanno chiesto se non si senta un pentito del Concilio. Lui risponde che l’intuizione di Giovanni XXIII fu provvidenziale, ma che all’intervento chirurgico sono seguite tante complicazioni postoperatorie. E forse aveva ragione proprio san Gregorio Nazianzeno, nel quarto secolo, a sbottare: “Non andrò mai più a un Concilio: troppa confusione”. Una delle deformazioni postconciliari che proprio non riesce ad accettare è la svalutazione del cristiano normale, della nonnina che recita il rosario o del padre di famiglia che non ha tempo di partecipare a riunioni o attività di associazioni o movimenti. “Può capitare – tuonò nel 1992 dalla tribuna del Meeting di Rimini – che qualcuno svolga ininterrottamente attività associazionistiche nella Chiesa e tuttavia non sia affatto un cristiano. E può capitare invece che qualcun altro viva semplicemente della parola e del sacramento e pratichi l’amore, senza essere mai comparso in comitati ecclesiastici, e tuttavia egli sia un vero cristiano”.

All’interno della gerarchia cattolica poche persone come Ratzinger suscitano tanta ammirazione e tanto odio. E certamente attorno alla sua figura non si combatte solo una guerra teologica. Per lunghi anni il vasto fronte dei martiniani lo ha sempre sentito un corpo estraneo rispetto al cattolicesimo felpato che regnava nella curia ambrosiana. Ma il Prefetto della fede riesce ad alienarsi simpatie anche tra i governativi. Gli strali di Sua Eminenza infatti non prendono di mira solo i “nuovi eretici”, ma anche l’elefantiaco establishment della burocrazia ecclesiastica. Curiosamente è proprio il rappresentante di una potente istituzione romana a invocare una sorta di devolution cattolica. Una Chiesa più leggera, con meno curie, meno documenti episcopali, meno eventi. “Non mi sento a mio agio” dichiarò candidamente all’inizio dell’Anno Santo del 2000, “in un clima di celebrazioni permanenti. E ho sentito al Tg che ce ne sono in calendario ben 140…”. La pletora di santi e beati Non la presero bene, ovviamente, né l’attivissimo arcivescovo Crescenzio Sepe né al comitato organizzatore del Giubileo. Ma l’evangelica virtù di parlare chiaro non fa difetto a Ratzinger. Ha criticato persino la pletora di canonizzazioni sotto il pontificato wojtyliano (più santi e beati in questi ventidue anni che nei quattro secoli precedenti). Lo disse alcuni anni fa: l’inflazione di aureole, a personaggi venerati solo in ristretti ambienti religiosi, svaluta il concetto stesso di santità. Fu presa come una critica a Wojtyla. Così sull’argomento si autoimpose il silenzio, pro bono pacis, ma resta convinto che dovrebbe essere posto un limite alle beatificazioni à gogo.

A torto o a ragione, Ratzinger si sente chiamato da Dio a una missione impopolare ma doverosa: difendere l’autentica fede del popolo cristiano dalle manipolazioni degli intellettuali cattolici e dai condizionamenti della mentalità dominante. E in questo ruolo si sente un autentico democratico, forse persino di sinistra. Ha scritto: “Il magistero ecclesiale protegge la fede dei semplici: di quelli che non scrivono libri, non parlano alla televisione, e non sono in grado di scrivere nessun articolo di fondo sui quotidiani: questo è il suo compito democratico. Esso deve dar voce a chi non ne ha”. Va da sé che gli intellettuali cattolici e i mass media ricambino con una cordiale antipatia questo suo atteggiamento. Pochi contatti anche con il mondo politico italiano, le cui vicende segue da lontano e con scarso interesse. Stima però Andreotti, e la sua rivista 30Giorni. Non a caso, uno dei pochi interventi politici che di lui si ricordino fu un “elogio del compromesso”.

 

La sua immagine nella stampa laica è stata sempre pessima, raramente è andata oltre il cliché del Grande Restauratore. Del resto Ratzinger non è uomo da concedere molto allo spettacolo. E certo il Dominus Jesus, il documento della sua Congregazione sul rapporto fra salvezza cristiana e altre religioni non ha migliorato la situazione, negli anni post 11/9. Il Dominus Iesus è stato recepito come un’arrogante e apodittica dichiarazione di superiorità cattolica rivolta a musulmani, ebrei, buddhisti e alle altre Chiese. Critiche ed equivoci che lui, con un po’ di civetteria intellettuale, di solito snobba o sopporta come un male minore. I cardinali di Santa Romana Chiesa hanno sempre apprezzato la sua radicalità molto più di quanto manifestino in pubblico. Le sue prime parole dopo l’elezione sono state di grande umiltà. Il Prefetto di ferro, continua a sentirsi un semplice cattolico bavarese, quello che dopo tanti anni passati a studiare l’esistenza di Dio concludeva: “Non saprei indicare una prova della verità della fede più convincente della schietta umanità che la fede ha fatto maturare nei miei genitori”.

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