(foto LaPresse)

Nel diluvio di porpore, il Papa spara un siluro contro la Chiesa americana

Francesco consegna berrette rosse ad agosto, ma dopo il “caso Kasper” torna a riunire tutti i cardinali

Matteo Matzuzzi

Europa sempre più perferia, rispetto al 2013 raddoppiano invece i cardinali asiatici. Assenze illustri e sorprese

La notizia più importante il Papa l’ha data prima di elencare i nomi dei ventuno nuovi cardinali che riceveranno la berretta rossa il prossimo 27 agosto. Dopo otto anni, infatti, Francesco riunirà a Roma tutti i cardinali per discutere e confrontarsi sulla riforma della curia che entrerà in vigore il prossimo 5 giugno. Due giorni di dibattito (il 29 e il 30 agosto) che serviranno soprattutto ai porporati per conoscersi. La scelta infatti di andare a prendere i cardinali alla fine del mondo e per di più in sedi non tradizionalmente cardinalizie ha fatto sì che buona parte di coloro che saranno chiamati a eleggere il successore di Bergoglio non si conoscano tra loro. Non solo: di tanti non si conoscono neppure le idee sullo stato e sul futuro della Chiesa. Non proprio dettagli, considerato l’alto compito cui sono chiamati. L’ultima volta che si ritrovarono tutti insieme fu traumatico: si preparava il Sinodo straordinario sulla famiglia e il cardinale Walter Kasper lesse la lunga relazione introduttiva (che il Foglio pubblicò in esclusiva), l’ouverture all’appuntamento sinodale che si sarebbe tenuto a Roma qualche mese dopo, con la conta all’ultimo voto sul via libera alla comunione per i divorziati risposati. Un testo, quello del teologo allora prediletto dal Papa, che divise il Collegio in gruppi e fazioni e che determinò un Sinodo dominato dalla tensione e dal nervosismo. Da quel giorno, mai più ci fu una riunione corale delle porpore. Ora, si cambia. Di tempo ne è passato e soprattutto è mutata la composizione del futuro Conclave, sempre più dominato – è nell’ordine naturale della cose – dai cardinali con diritto di voto nominati da Francesco: sono 83, contro i 38 scelti da Benedetto XVI e gli 11 di Giovanni Paolo II. Sforato il tetto dei 120 elettori fissato da Paolo VI, cosa che accade di frequente. 

 

Quanto alla lista, il primo dato che balza all’occhio è che la vera periferia sta diventando l’Europa: mentre lo sguardo del Papa si posa sull’Asia (erano dieci gli elettori asiatici nel 2013, saranno ventuno fra tre mesi), sull’Africa e sull’America latina, dei sedici under 80 solo due provengono da diocesi del vecchio continente: si tratta dell’arcivescovo di Marsiglia, Jean-Marc Aveline (a un passo dalla nomina, il mese scorso, a Parigi), e a sorpresa del vescovo di Como Oscar Cantoni. Scelta singolare: l’arcivescovo di Milano Mario Delpini resta senza porpora (a conferma che le precedenti esclusioni non erano dovute al fatto che Angelo Scola fosse ancora elettore), mentre il vescovo di una sede sua suffraganea, la ottiene. Conta la persona, si direbbe “il carisma”, ma è altrettanto vero che si tratta di scelte politiche. Legittime perché il Pontefice può fare quel che vuole, ma che vanno ben oltre la retorica della “periferia” così centrale nella narrazione del pontificato. Il messaggio che il Papa dà è che l’Europa non è più centrale, che la nuova evangelizzazione non deve né partire né essere costruita sul continente che fu di san Benedetto. Si guarda altrove, si va al largo, come Magellano, pescando pastori di realtà spesso minuscole e sconosciute, portatrici di qualcosa che agli occhi di Francesco può infondere vitalità a una Chiesa troppo ripiegata su se stessa. E’ l’invito a uscire dalle logiche romane, basti pensare alla creazione cardinalizia di padre Giorgio Marengo, quarantasettenne missionario della Consolata prefetto apostolico di Ulaanbaatar, capitale della Mongolia: una manciata di fedeli su un territorio immenso e ancor meno preti, tutti o quasi stranieri. Per non parlare della storia di mons. Peter Okpaleke, nominato dal 2012 vescovo di Ahiara da Benedetto XVI cui fu impedito di entrare in diocesi perché appartenente a un’etnia diversa da quella che è lì maggioritaria. 

 

Però c’è anche la politica. In questo senso la nomina più rilevante è quella di mons. Robert McElroy, vescovo di San Diego. McElroy è da anni considerato il vescovo più liberal e più apertamente in dissenso con la linea della Conferenza episcopale americana sulle tematiche pro life e gender. Aver scelto lui e non il suo “superiore” diretto, l’arcivescovo conservatore di Los Angeles José Horacio Gómez, è un chiaro messaggio spedito da Roma ai presuli degli Stati Uniti. Non che ce ne fosse bisogno: nei concistori precedenti Francesco aveva pescato sempre dallo stesso catino: Cupich, Tobin, Gregory. Segnali chiarissimi, nonostante i quali però la Chiesa americana ancora stenta a procedere lungo la via indicata da Francesco. Diversi siti internet conservatori hanno definito la lista l’ennesima prova che Bergoglio sceglie solo personalità a lui vicine e “fedeli”. In realtà, al di là delle nomine per così dire “dovute” dei prefetti curiali, vi sono anche assenze di rilievo che smentiscono tale assunto. Manca, ad esempio, l’arcivescovo di Lima, mons. Carlos Castillo, che Francesco spedì a occupare il posto di colui che lo sospese dall’insegnamento per vicinanza con la Teologia della liberazione. Manca il nuovo vescovo di Hong Kong, gesuita. E manca anche una voce dall’Australia, ormai orfana di cardinali elettori. Di personalità di assoluto rilievo, vicine al sentire papale, ce n’erano. Ma Francesco ha preferito guardare oltre.  

  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.