Che fine ha fatto la riforma della curia voluta dal Papa?

Doveva essere la grande novità del pontificato e dopo otto anni non se ne parla più

Matteo Matzuzzi

Una riforma già impostata dai motu proprio di Francesco promulgati dal 2013 a oggi. Il nodo del ruolo delle conferenze episcopali nazionali e le aspettative di tanti che rischiano di essere deluse

Roma. Neppure un accenno, neanche in qualche nota messa in fondo al discorso, alla tanto attesa riforma della curia romana. Nel discorso di auguri natalizi a chi in quella curia ci lavora,  il Papa non ha pronunciato una sola parola sul progetto elefantiaco cui da otto anni un consiglio creato ex novo (l’ex C9, ora C7) lavora confrontandosi in riunioni  a scadenza più o meno fissa. E’ vero, la riforma cui punta Francesco è la conversione dei cuori, eppure non va dimenticato che una delle richieste più forti  che nei giorni del pre Conclave del 2013 venivano avanzate era relativa alla risistemazione dell’assetto curiale. Non un semplice maquillage, un accorpamento qui e una soppressione lì: i cardinali chiedevano all’ancora ignoto successore di Benedetto XVI una nuova costituzione apostolica che archiviasse la Pastor Bonus di Giovanni Paolo II e rivedesse la gerarchia dei dicasteri, magari togliendo spazio alla Segreteria di stato  e dandone di più a chi si occupa  di evangelizzazione. Una volta eletto, Francesco si era subito dato da fare con la creazione del Consiglio cardinalizio che, accanto a compiti consultivi sul governo della Chiesa, aveva  la mansione di definire la nuova carta costituzionale. Di anno in anno si assicurava che la promulgazione era ormai imminente, che andavano solo definite meglio alcune competenze. Qualcuno, ben introdotto nelle sacre stanze, osservava che il cambiamento era talmente importante che ci voleva tempo per fare le cose bene.

 

Il Papa, ogni tanto, ne accennava mentre i cardinali – tra una defezione e l’altra – continuavano a riunirsi. Se ne conosce il titolo, Praedicate evangelium, predicate il Vangelo. Nel discorso natalizio del 2016, Francesco ricordava che “la riforma non ha un fine estetico, quasi si voglia rendere più bella la Curia, né può essere intesa come una sorta di lifting, di maquillage o di trucco per abbellire l’anziano corpo curiale e nemmeno come una operazione di chirurgia plastica per togliere le rughe”. L’anno scorso, pur in un intervento dominato dalla crisi pandemica, Bergoglio chiariva che “si deve smettere di pensare alla riforma della Chiesa come a un rattoppo di un vestito vecchio, o alla semplice stesura di una nuova costituzione apostolica. Non si tratta di ‘rattoppare un abito’”. Insomma, le premesse continuavano a essere quelle di una “quasi” rivoluzione.

 

Poi, intervistato lo scorso agosto da Radio Cope, il Papa assicurava che era tutto pronto: “L’ultimo passo è che io la legga – devo leggerla perché devo firmarla e devo leggerla parola per parola”, ma al contempo spegneva la curiosità di quanti s’aspettavano grandi novità: “Non presenterà nulla di nuovo rispetto quanto si sta vedendo finora. Forse qualche dettaglio, qualche cambiamento riguardo a dicasteri che si uniscono, due o tre dicasteri in più, ma è già stato tutto annunciato: per esempio, Educazione si unirà a Cultura. Propaganda fide si unirà al dicastero della Nuova evangelizzazione. Ma è stato tutto già annunciato. Non ci sarà nulla di nuovo rispetto a quanto è stato promesso che si sarebbe fatto. Alcuni mi dicono: ‘Quando uscirà la costituzione apostolica della riforma della Chiesa, per vedere la novità?’ No. Non ci sarà nulla di nuovo. Se c’è del nuovo, sono piccole cose di aggiustamento. Sta nell’ultima parte, che è in ritardo a causa della mia malattia. Si sta cucinando a fuoco lento, in modo che comprenda tutto”. Da quel momento, non più una parola. Soprattutto, il Papa ha di fatto ridotto di molto le aspettative, legittimamente alte. 

 

Dopotutto, se un consiglio cardinalizio ad hoc si riunisce per otto anni, studiando, ascoltando, parlando e redigendo bozze, quel che “si sta cucinando a fuoco lento” (per usare le parole del Pontefice) dovrebbe essere assai succulento. Invece, Francesco alla fine dell’estate ha osservato che si sa già tutto e che comunque “la riforma non sarà altro che avviare quanto detto dai cardinali, quanto abbiamo chiesto nel pre conclave, e che si sta vedendo”. Se tutto si risolvesse in quanto annunciato a Radio Cope e nel riordino della miriade di motu proprio promulgati dal 2013 a oggi che hanno in parte ridefinito compiti e precedenze non solo protocollari, è probabile che a essere insoddisfatti saranno in parecchi. Soprattutto quanti auspicavano e si attendevano un rafforzamento del ruolo delle conferenze episcopali nazionali, anche in ottica sinodale. Concependole, magari, come “soggetti di attribuzioni concrete, includendo anche qualche autentica autorità dottrinale”, come si legge nel principale documento del pontificato, l’esortazione apostolica Evangelii gaudium (novembre 2013). Dopotutto, chiariva allora il Papa, “un’eccessiva centralizzazione, anziché aiutare, complica la vita della Chiesa e la sua dinamica missionaria”.
 

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  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.