(foto LaPresse)

Un monocolore papale al governo della Chiesa

Pensionato il cardinale Robert Sarah, non ci sono più punti di vista alternativi sul governo della Chiesa cattolica. La grande riforma ora può davvero partire

Matteo Matzuzzi

Nessuno scandalo: il Papa si circonda di uomini fidati anche se ottuagenari, anche a costo di privarsi di voci rappresentanti la minoranza. La strada del team compatto per imprimere la svolta irreversibile

Roma. In attesa della riforma della curia romana su cui si lavora da otto anni e ormai divenuta una sorta di miraggio come lo era l’acqua per gli avventurieri del deserto, l’allontanamento per raggiunti e da poco superati limiti d’età del cardinale Robert Sarah dal governo della chiesa è un chiaro indicatore della rotta impostata da Francesco, che col passare degli anni sta – come è legittimo – trasformando la curia in una specie di monocolore unito per visione e idee. E’ lo stesso schema seguito nella scelta dei candidati alle nuove porpore, con il Collegio cardinalizio che, rinnovato di anno in anno, conta ormai sempre meno voci dissonanti rispetto al programma del Papa. Sarah non è stato giubilato come toccò al cardinale Gerhard Ludwig Müller, congedato dalla congregazione per la Dottrina della fede allo scadere del mandato quinquennale (con la spiegazione che da quel momento in poi tutti i prefetti e i capi dicastero sarebbero rimasti in carica solo cinque anni e mai oltre il settantacinquesimo compleanno. Norma valsa al momento solo per Müller), ma agli osservatori più attenti non è sfuggito che il Papa, accettando la rinuncia presentata dal porporato guineano, non ne abbia nominato il successore alla guida della congregazione per il Culto divino e la disciplina dei sacramenti. Perché? Dopotutto Sarah i settantacinque anni li aveva compiuti lo scorso giugno, venendo confermato donec aliter provideatur, finché non si fosse provveduto diversamente. C’era dunque tutto il tempo per individuare e nominare il successore. Invece, la modalità scelta per la rimozione – all’inizio della Quaresima e lasciando vacante il posto – ha dato fiato alle trombe di quanti non attendevano altro che festeggiare la cacciata del conservatore non allineato.

 

Discorsi che di certo non sono passati neppure per la mente del Papa, che non ha tempo da perdere nel tenere aggiornato il diario degli amici e dei nemici, compulsando nevroticamente la carta d’identità dei cardinali di curia aspettando il momento propizio per mandarli fuori. L’effetto mediatico del provvedimento così costruito, però, è quello dell’allontanamento del nemico interno, il che non contribuisce di certo a rasserenare gli animi e a dare l’immagine di una chiesa il più possibile unita.  Fare discorsi sull’anagrafe e sulla normalità di certi addii ha poco senso, considerato che in curia ci sono prefetti quasi ottantenni in proroga da due, tre, quattro, cinque anni oltre il termine fissato per il pensionamento. Nulla di strano: chi governa, e soprattutto chi governa con lo stile di Francesco, ha la necessità di attorniarsi di uomini fidati con cui si ha una confidenza quotidiana.  Siano essi quarantenni o ottantenni, non è un problema. Dal 2013 si è detto e scritto che la riforma – quella vera e profonda della Chiesa, non quella del suo governo burocratico – era frenata da chi remava contro, vuoi perché ostili all’agenda bergogliana e alle sue priorità, vuoi perché più semplicemente  sostenitori di un diverso approccio alle cose. Non è un delitto: Walter Kasper era capo di dicastero sotto Benedetto XVI e un grande uomo di chiesa come Carlo Maria Martini fu nominato arcivescovo di Milano da Giovanni Paolo II, non proprio convinto che la chiesa fosse indietro di duecento anni. Francesco ha scelto una strada diversa, un team compatto per la grande riforma dalla quale sarà difficile tornare indietro.