Theodore McCarrick (foto LaPresse)

Il caso McCarrick non migliora i rapporti tra il Papa e la chiesa americana

Matteo Matzuzzi

Come è stato possibile che nessuno, a Roma, abbia fatto nulla per verificare quanto si diceva sul conto del vescovo prima di portarlo fino al cardinalato?

Roma. Il Papa per la prima volta nella storia ha tolto la porpora dal capo di un cardinale. Il comunicato stampa diffuso sabato all’ora di pranzo parlava, assai più diplomaticamente, di “dimissioni accettate”, ma è lecito ritenere che la richiesta di smettere le vesti rosse sia giunta direttamente da Santa Marta. Anche perché le dimissioni sono state accettate immediatamente, con l’aggiunta di una punizione extra per Theodore McCarrick, obbligato a una “vita di preghiera e penitenza”. Il caso però è tutt’altro che chiuso e rappresenta una scossa non da poco per la chiesa americana.

 

Nell’ultimo mese, quotidianamente vescovi e cardinali pubblicavano comunicati in cui prendevano le distanze da McCarrick, già potente arcivescovo di Washington e leader della corrente liberal dell’episcopato statunitense. Il cardinale Joseph Tobin, che pure con McCarrick condivide l’orientamento pastorale progressista, ha messo nero su bianco – quasi a ironizzare – che sul porporato finora si erano sentite notizie solo di certe sue relazioni sessuali con “uomini adulti”. America, la rivista dei gesuiti, ha pubblicato un editoriale in cui sentenzia che “la chiesa e i suoi leader dovrebbero vergognarsi della loro incapacità”. Il messaggio è diretto sia ai vertici della gerarchia locale sia a Roma, che nulla ha fatto nel corso dei decenni per fermare la carriera straordinaria di Theodore McCarrick, culminata con la nomina nel 2000 ad arcivescovo della capitale e la creazione cardinalizia nell’anno successivo. Il curriculum del presule già riportava la carica di vescovo a Metuchen (dal 1981 al 1986), di arcivescovo a Newark (dal 1986 al 2000) e per quattro anni, dal 1977 al 1981, vescovo ausiliare di New York. A leggere i resoconti e i comunicati diffusi da giugno in poi, pare che tutti sapessero: sia delle presunte violenze commesse da McCarrick (presunte ma “credibili” le ha definite ufficialmente il cardinale Timothy Dolan) sia delle sue nottate con i seminaristi in case in rive al mare, in New Jersey.

 

La domanda è: come è stato possibile che nessuno, a Roma, abbia fatto nulla per verificare quanto si diceva sul conto del vescovo prima di portarlo fino al cardinalato? Sean O’Malley, arcivescovo di Boston, è intervenuto in prima persona per avvertire sui rischi di una “catastrofe” in cui la chiesa sarebbe andata a imbattersi: “le scuse non bastano”, aveva scritto pochi giorni prima della porpora tolta a McCarrick. Era la richiesta per un gesto forte da parte del Papa, per evitare il ripetersi di un caso “Spotlight” che avrebbe tirato in mezzo i vertici dell’episcopato americano e i cui contraccolpi si sarebbero sentiti anche a Roma. O’Malley lamentava quasi un ritardo del Vaticano ad agire, come se fosse ancora restio a mettere in pratica la dottrina della “tolleranza zero” che il cardinale cappuccino invoca da anni. E’ anche la certificazione di una certa distanza che permane, nonostante i cambiamenti nelle gerarchie, tra il Pontefice e la chiesa americana, ancora poco incline a sviluppare la “riforma” inaugurata da Bergoglio ormai cinque anni fa. Prova ne sono tutte le votazioni a scrutinio segreto cui sono chiamati i vescovi per eleggere i vertici delle commissioni episcopali: quasi sempre a vincere sono i candidati in qualche modo legati al conservatorismo muscolare che raggiunse il massimo dello splendore nell’ultima fase del pontificato giovanpaolino. I nomi nuovi (come Blase Cupich, arcivescovo di Chicago e cardinale per volontà di Francesco) restano sempre nelle ultime file a rappresentare una ridotta che non riesce a guadagnare terreno nella complessità della chiesa americana. Il caso McCarrick potrà cambiare qualche equilibrio, soprattutto se si farà luce sulle coperture di cui ha goduto nel corso dei decenni.

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  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.