“Noli me tangere”, di Alexander Andrejewitsch Iwanow (olio su tela, 1835)

Resurrezione per postmoderni

Gabriele Palasciano*

Quant’è ragionevole nel Terzo millennio credere al mistero di un uomo crocifisso, morto e risorto per la salvezza del mondo. Intervista al teologo Kurt Appel

Vienna. Può ancora un essere ragionevole del XXI secolo credere in un uomo, Figlio di Dio, crocifisso, morto e risorto per la salvezza del mondo? È questo infatti il kerygma, il cuore dell’annuncio cristiano, la cui accettazione suscita oggi non poche resistenze. Tuttavia, il dubbio sulla risurrezione di Cristo non risale all’Illuminismo e al trionfo della razionalità, ma lo si ritrova negli stessi scritti neotestamentari, per non parlare poi della letteratura pagana dei primi secoli. Per fare un esempio, due intellettuali pagani del IV secolo della nostra era, fieri avversari del cristianesimo, non percepivano nulla di straordinario nella storia di Gesù. Ierocle Sossiano contrapponeva al Nazareno Apollonio di Tiana, figura quasi leggendaria di filosofo neopitagorico e di taumaturgo suo contemporaneo, sottratto anch’egli miracolosamente alla morte, apparso ai suoi discepoli e asceso al cielo. Nel suo Contra Galileos, l’imperatore Giuliano preferiva opporgli l’eroe semidivino Eracle e il dio della medicina Asclepio, interpretando sia la vita che l’opera di Gesù nel segno dell’impostura. Nelle Orationes, l’“Apostata” arrivava persino a contrapporre le apparizioni visibili e tangibili di Asclepio – guaritore e fautore del bene – al “fantasma” di Cristo di cui parlavano le narrazioni dei cristiani sulla risurrezione. Ciononostante, esiste una specificità irriducibile della figura e della storia di Gesù di Nazareth. Si tratta del mistero pasquale, spartiacque tra la morte e la vita, tra la crudele crocifissione e la gloriosa esaltazione, tra l’annientamento kenotico e l’ingresso della vita nel regno della morte. Il teologo austriaco Kurt Appel, promettente studioso e docente di teologia fondamentale e di filosofia della religione all’Università di Vienna, ci guida nella riflessione sul mistero pasquale alla scoperta della sua peculiarità. Queste considerazioni si sviluppano a pochi giorni dalla pubblicazione in lingua italiana del suo importante saggio Tempo e Dio. Aperture contemporanee a partire da Hegel e Schelling (Queriniana, 2018, pp. 240), tentativo di elaborazione di una teoria teologica del tempo, attenta alle dimensioni del passato e dell’eternità.

 

Professor Appel, circa la vittoria di Gesù Cristo sulla morte, alcuni teologi hanno introdotto una distinzione tra “risurrezione” e “risuscitamento”. Preferendo quest’ultimo termine, essi hanno inteso sottolineare che si è trattato di un’opera compiuta da Dio Padre e non da Gesù. Quale terminologia le sembra teologicamente più appropriata?

 

Nel Nuovo Testamento sono utilizzate entrambe le espressioni, le quali si completano a vicenda. Gesù non è né l’oggetto dell’agire del Padre né un soggetto autoreferenziale, ma vive dell’alterità del Padre, agisce e insegna nella forza del Padre. La sua attività e la sua passività come persona umana – proprio perché in lui agisce il Padre – si rivelano anche nella risurrezione. È in questo modo che Gesù risorge dai morti in quanto risuscitato dal Padre e viceversa.

  

Dietro tutto ciò vi è una concezione particolare di Dio.

 

Esattamente. Per la comprensione biblica di Dio, o ancora per la comprensione della risurrezione, è importante inoltre che Dio non sia un oggetto del nostro sapere: Dio non è un sostantivo che può essere oggettivato, ma è un verbo. Egli è colui che si mostra, si rivela, si esprime come vita – come salvezza, come esodo dalla schiavitù, come libertà. “Io mi rivelerò in vostro favore” è il suo nome: tramite Gesù e in Gesù, Dio si rivela come colui che ha salvato – questo è tra l’altro il significato letterale del nome di Gesù, in ebraico Yešuʽa –, che salva dalla colpa e dalla morte. In tal modo, le parole “risurrezione”, “Dio” e “Gesù” esprimono la stessa realtà.

 

Come ha sottolineato l’esegeta americano John P. Meier, la vicenda storica di Gesù di Nazareth è stata quella di un “marginal jew”. Essa si è conclusa con la passione e la morte per crocifissione, l’esito di una catastrofe, per di più ignorata dagli annali della storia mondiale del I secolo della nostra era. Eppure sembra che un capovolgimento si sia verificato con la sua risurrezione dai morti…

 

Tutte le grandi narrazioni bibliche sono situate al margine degli eventi e dei centri politico-culturali del tempo. Israele si trovava al margine delle grandi culture orientali. Al tempo di Gesù, la stessa terra di Palestina è stata al margine dell’Impero romano. Nei grandi centri politici non sembrava e non sembra esserci uno spazio per Dio, perché qui gli uomini mettevano e mettono in primo piano i propri poteri… Dal punto di vista cristiano, la risurrezione dai morti significa infatti la grande svolta della storia. Il suo significato è molto più profondo di quanto potrebbe esprimere l’immagine di un semplice ritorno dai morti poiché, nella risurrezione di Cristo, Dio pone un segno di vita e di amore per la vita all’interno di un mondo violento, colpevole e malato.

  

Da un’analisi esegetica attenta delle fonti emerge che, contrariamente agli apocrifi, nei Vangeli canonici mancano sia una descrizione della risurrezione che l’aggiunta di elementi straordinari e leggendari. Questi non parlano dello svolgimento della risurrezione, ma di ciò che si è prodotto a partire dalla risurrezione. Il Vangelo di Marco, il più antico, parla della risurrezione, almeno nella sua conclusione “breve” – nel sedicesimo capitolo, dal primo all’ottavo versetto – in maniera sorprendentemente laconica: l’annuncio del Cristo vivente non suscita gioia, bensì “timore e tremore”. Perché?

 

La risurrezione indica il passaggio tra storia ed eschaton. Tale transizione rende inoperose tutte le immagini, le concezioni e le rappresentazioni del mondo che l’uomo ha costruito come auto-rassicurazione, per nascondere la propria vulnerabilità e per chiudersi all’Altro. Attraverso la psicanalisi, noi sappiamo oggi che in ogni affermazione e in ogni rappresentazione dell’Io – siano esse culturali, sociali, linguistiche e religiose – rimane qualcosa di non detto e che però è decisivo. La poesia, l’arte e l’amore rimandano a un tacere, a un sapere non rappresentabile che accompagna tutto ciò che viene detto e che viene rappresentato. Quanto viene enunciato in maniera diretta e completa mira a un dominio, mai a un incontro e a un approfondimento. È veramente un fatto grandioso dei Vangeli il modo con cui viene rispettato il centro misterioso dell’esistenza umana. Il Vangelo di Marco si conclude, almeno per quanto riguarda la conclusione “breve”, con un grande silenzio perché esso costituisce l’essenza di ogni esperienza profonda, di ogni storia che riesce a cambiare il nostro mondo. Questo non-detto, questo tacere non è insignificante, ma è il fondamento di ogni significato e di ogni rappresentazione.

  

Un’attenta analisi dei racconti pasquali rivela delle divergenze e delle contraddizioni insormontabili. Una loro armonizzazione risulterebbe poco convincente e intellettualmente disonesta. I racconti evangelici di Matteo e di Luca presentano delle modifiche e delle amplificazioni notevoli. Matteo condensa gli eventi del Risorto in Galilea. Luca, invece, li concentra su Gerusalemme, tacendo sulla Galilea. Riassumendo, lo sviluppo delle tradizioni pasquali è stato complesso. Una tale diversità non risulta imbarazzante per la fede e per la teologia cristiana?

 

L’esegesi moderna è nata nelle università tedesche, per di più nelle facoltà di teologia protestante. E cosa fa lo studioso tedesco? Studia, seduto alla sua scrivania, le fonti e i documenti – al contrario, lo studioso austriaco preferisce recarsi in un caffè o al teatro… Per questo, si pensava che anche gli autori del Nuovo Testamento avessero scritto i propri testi compilando documenti e notizie. Io non sono di questo parere. Nel mondo antico, gli uomini hanno viaggiato, in particolare i primi cristiani spinti dal desiderio della missione. Durante i loro viaggi missionari, i pochissimi cristiani dei primi decenni hanno fatto ricorso a qualsiasi possibilità e strumento per scambiare novità. In tal modo, le comunità cristiane erano ben collegate tra loro. Secondo il mio punto di vista, anche gli autori dei Vangeli si sono conosciuti, erano a conoscenza gli uni degli altri. Così, i Vangeli non si contraddicono, al contrario si completano a vicenda, costituendo una sinfonia in quattro tonalità. Quindi, da un lato, ritengo vero che un’armonizzazione dei quattro Vangeli canonici sarebbe intellettualmente disonesta. Dall’altro lato, penso che le differenze presenti in essi non siano casuali, ma intenzionalmente volute. Le differenze non esprimono una contraddizione, bensì una pluralità della salvezza che non può essere raccontata in modo lineare, attraverso una sola narrazione.

 

Una percezione teologica del tempo e dello spazio soggiace alle diverse localizzazioni dell’incontro di Gesù risorto con i suoi discepoli.

 

Certamente. Con le localizzazioni dell’incontro di Gesù risorto in Gerusalemme e in Galilea viene espresso qualcosa di più profondo: nel passaggio tra tempo ed eschaton, ossia nel passaggio dalla storia terrena alla storia celeste, i nostri schemi geografici non funzionano più. Nell’eschaton, tutte le coordinate geografiche sono rese inoperose. Al posto dello spazio-tempo subentra un mondo simbolico. Ciò non si deve intendere come se i racconti sul Risorto fossero solamente simbolici, mentre il mondo fisico andrebbe avanti in maniera indipendente. I cristiani devono anzi avere uno sguardo molto più radicale su questo evento. Il mondo spazio-temporale e fisico è reso inoperoso nell’eschaton, indicato dalla risurrezione, e al suo posto subentra un mondo poetico. Nella lingua tedesca esiste la parola aufheben che racchiude un triplice significato: “elevare”, “conservare” e “rendere inoperoso”. Si può dire che il mondo simbolico hebt auf – eleva, conserva, rende inoperoso, cancella – il mondo spazio-temporale.

 

Nelle apparizioni del Risorto tra la Galilea e la Giudea, in particolare nella capitale Gerusalemme, sembra dunque trasparire una dialettica biblico-teologica che parla del Dio di Gesù.

 

Nei Vangeli, l’apparire del Risorto è situato sia in Galilea che a Gerusalemme perché il Dio del mondo biblico oscilla sempre tra periferia e centro. Dio si rivela sul Sion, il monte di Gerusalemme sul quale era situato il tempio, e anche sul Sinai. Nel racconto del paradiso, contenuto nel libro della Genesi, l’albero della conoscenza che appartiene a Dio è situato sia al centro che al margine del giardino dell’Eden. Il sabato, il “tempo di Dio”, si trova al centro e al margine del tempo feriale. Durante la sua vita, Gesù ha agito sia in Galilea che a Gerusalemme. Come tutte le altre divinità del Vicino Oriente antico, il Dio biblico è un Dio al centro della vita politica e culturale. Tuttavia, diversamente dalle altre divinità, si tratta di un Dio che non appartiene mai completamente a questo centro, egli non trova del tutto la sua dimora nei templi, la sua presenza non è limitata ai palazzi e alle grandi città, ma si estende anche alle periferie. Per queste ragioni, circa la verità dei racconti evangelici, ritengo che sarebbe molto più preoccupante se l’apparire del Risorto fosse stato limitato a un solo luogo geografico, magari al solo centro di Gerusalemme. Ma il Risorto ci incontra “sulla soglia”, tra centro e periferia, tra mondo geografico e mondo simbolico, tra Gerusalemme, come luogo delle promesse, e la Galilea, come luogo di emarginazione. Come alla fine della nostra vita vengono qualche volta ricapitolati gli eventi più importanti, inclusi quelli che erano al margine della nostra memoria, così anche il Risorto si ricollega ai luoghi decisivi del suo agire – Gerusalemme-centro, Galilea-periferia –, trascendendo il mondo fisico.

 

Nonostante le difficoltà sollevate dalle discordanze delle narrazioni evangeliche, la certezza comune è che il Crocifisso di Nazareth vive presso Dio.

 

Il Crocifisso vive presso Dio, ma vive presso Dio in quanto ci incontra nei poveri, in quanto noi – come nel Vangelo di Marco – riprendiamo il cammino verso la Galilea, dove incontriamo il mondo emarginato dei piccoli. Forse si dovrebbe esprimere questa realtà così: il Dio biblico ha il suo luogo nel tempio, e il nuovo tempio è la croce. Per tale ragione, il Crocifisso vive presso Dio, in quanto Dio si trova nelle piccole e grandi croci di questo mondo.

  

Nel 1875, Kersey Graves pubblicava The World’s Sixteen Crucified Saviors, un testo continuamente citato da alcuni detrattori contemporanei del cristianesimo. Malgrado il suo comparativismo banale e la debolezza dell’argomentazione “storica”, la questione dell’unicità o specificità di Cristo veniva posta. A suo avviso, cosa distingue il Cristo crocifisso e risorto dalla folla delle divinità e degli eroi morti e risorti dell’Antichità?

 

Nella Bibbia, la parola “Dio” è collegata a un’esperienza singolare che trascende ogni categoria. Questa esperienza viene parafrasata con il termine “gloria di JHWH” – non è possibile rappresentare il nome di Dio e per questo non è stato pronunciato, ma segnalato con le quattro lettere JHWH. La gloria di JHWH indica la vita e la gioia infinita, così come queste si potevano sperimentare nelle feste centrali del popolo d’Israele. Questa gloria di JHWH ha avuto nel tempio di Gerusalemme il suo luogo di manifestazione, perché il tempio ha rappresentato il punto di incontro per ricordare e celebrare la liberazione dalla schiavitù e dalla morte. Per i cristiani, il nuovo tempio, dunque il luogo nel quale si manifesta la gloria di JHWH, è stato Gesù stesso, alla cui persona si è collegata l’esperienza di gioia e di liberazione. Il luogo in cui la vita di Gesù ha avuto il suo apice è stata la croce. Qui si trova il paradosso incredibile del cristianesimo: il simbolo della crudeltà di un potere imperialista e micidiale che ha soppresso Israele diviene il luogo di una gioia festosa. La ragione di tutto ciò non è da rintracciare nel masochismo della Chiesa antica, ma nel fatto che la croce è diventata il simbolo di un’empatia radicale da parte di Dio e dei suoi fedeli con i soppressi e i maltrattati. Il nome di Dio JHWH è proclamato ai sofferenti, particolarmente laddove viene loro donata la speranza, e proprio questo nome viene identificato con l’esperienza di Cristo. Laddove nasce nuova vita attraverso l’empatia e l’essere-con, Cristo fa sperimentare la gloria del nome di JHWH. Le antiche divinità abitavano nei palazzi e nei santuari dei potenti, nei libri degli studiosi e nel culto delle comunità, ma il nome di Dio JHWH, di cui Gesù è il rappresentante e la concretizzazione, trova il proprio luogo anche in coloro che sono fuori dalle comunità. In tal senso, l’amicizia collegata al nome di Gesù è realmente universale.

 

Mai menzionato da Paolo di Tarso nelle sue lettere e dai primi compendi della predicazione apostolica, il tema del “sepolcro vuoto” è da qualche anno molto discusso in teologia e in esegesi. Come lo si deve comprendere? Può costituire una “prova” della risurrezione di Gesù?

 

Ritengo non si debbano cercare prove sul piano fisico. Anche l’amore non si può provare, ma solo sperimentare. Il sepolcro vuoto è un segno centrale del cristianesimo. Esso rimanda sia alla nostra storia e al nostro mondo categoriale che all’eschaton. Il luogo di Cristo non è situato né in un mondo platonico ultramondano né in un mondo cartesiano-categoriale dove esistono solo oggetti, e nel quale la vita non possiede nessun ruolo particolare. Tuttavia, il cristianesimo ha il suo luogo nel mondo storico che viene trasfigurato. Come ho già accennato, Cristo è l’intersezione e il passaggio tra il mondo simbolico e il mondo fisico. La stessa cosa vale per la tomba vuota: si tratta di una realtà “spazio-temporale” situata a Gerusalemme, che è possibile visitare anche oggi. Ma il sepolcro è anche vuoto, esso non contiene il corpo fisico di Gesù perché il suo corpo risorto è ovunque, laddove si trova la vita ferita, laddove gli uomini festeggiano il passaggio dalla morte fisica, mentale, sociale e culturale, alla vita. Il corpo risorto di Cristo si trova nel paesaggio affettivo ed empatico della Bibbia, non in una tomba gerosolimitana.

 

Quale rapporto esiste tra tangibilità e intangibilità del corpo risorto?

 

Il mondo platonico e il nostro mondo materialistico hanno una cosa in comune: il corpo morto è intangibile, è una materia senza vita. Dal punto di vista cristiano, il nostro corpo morto si trasforma in una tangibilità universale. Quando viene ferito uno dei fratelli o delle sorelle più deboli, quando viene ferita la vita, anche quella di un animale, viene ferito Gesù. Laddove ha luogo un contatto di amore, anche il Cristo risorto incontra e tocca l’essere umano.

 

Ritorno al “sepolcro vuoto”. Esso è davvero irrilevante, come sostengono alcuni, dal punto di vista storico?

 

Il sepolcro vuoto non è irrilevante, ma è un simbolo del transito dal mondo fisico al mondo dei segni – il mondo simbolico appunto. Esso ci indica che i nostri corpi sono qualcosa di più della pura materia spazio-temporale. Vorrei aggiungere un elemento su Paolo di Tarso. È vero che egli non si riferisce direttamente al sepolcro vuoto, ma parla di una nuova vita in Cristo. Con ciò, Paolo si riferisce a una vita che non va più situata nella tomba.

  

Nel suo libro Io e Dio. Una guida dei perplessi (Garzanti, 2011), il teologo italiano Vito Mancuso ha affermato che la risurrezione di Gesù non è il fondamento della fede. Lei condivide tale percezione? La risurrezione può essere ancora considerata come la base sulla quale poggia le fede cristiana?

 

Non sono d’accordo con questa affermazione. Essa dimezza l’esistenza cristiana, in quanto la riduce alla materia spazio-temporale. Certamente, è vero che la risurrezione non può essere vista come una realtà meramente ultramondana. Nondimeno, ogni corpo rimanda oltre se stesso e la nostra vita consiste in un’apertura per l’Altro, così siamo già un corpo inizialmente risorto. Ridurre il mondo a ciò che è immediatamente dimostrabile e identificabile, al tempo cronologico e allo spazio cartesiano, non credo sia un pensiero e un atteggiamento biblico. Penso che il cristiano debba confrontarsi con le sfide della nostra cultura – proprio come fa peraltro Mancuso –, che egli debba anche testimoniare con la propria esistenza che il nostro mondo non è un essere di oggetti, un essere solo quantitativo ed economico, ma un essere simbolico, ovvero di segni che trascendono la realtà rappresentabile nella dimensione spazio-temporale. Dal mio punto di vista, questo sguardo non è solo necessario per potersi dire cristiani, ma è anche la condizione per un nuovo approccio alla vita e per un nuovo umanesimo.

 

Quali ritiene siano le radici permanenti del non credere nella risurrezione di Cristo?

 

Esistono diverse ragioni. La Chiesa si è presentata troppo spesso nella storia come un potere totalitario che ha sollecitato la resistenza. In tal modo, i dogmi centrali del cristianesimo talvolta non sono stati collegati con la speranza della salvezza, ma con l’oppressione della libertà umana. Un altro motivo è da ricercare in uno sguardo riduzionista del mondo contemporaneo: noi, il mondo occidentale, riduciamo, da un lato, la realtà agli oggetti, dall’altro lato, lo spazio e il tempo a qualcosa di quantificabile e di misurabile. Il mondo biblico però si presenta come una realtà di segni e di significati interconnessi e che rimandano all’apertura dell’essere, del tempo e dello spazio – oltre la semplice dimensione quantificabile. In un orizzonte concettuale del genere, la risurrezione è il segno nel quale sono interpretabili la vita e l’essere. Invece, in un’ottica materialistica la risurrezione, ma anche la vita e la poesia, rimangono incomprensibili.

 

A cosa può essere ricondotto un altro motivo del non credere alla risurrezione?

 

Un’altra ragione del perché la concezione della risurrezione si sia allontanata sempre più dall’orizzonte dei cristiani, oltre che delle persone del nostro tempo, è legata alla comprensione del corpo risorto in quanto corpo invulnerabile. Ma l’esistenza invulnerabile sarebbe un’esistenza intoccabile, mostruosa. Quando si leggono i Vangeli, le ferite della crocifissione di Gesù rimangono, anche se vengono trasformate, diventando i segni dell’inizio di una nuova comunità. Penso che la risurrezione renda perfino più tangibile il nostro corpo. Il corpo risorto è un corpo di e in comunità, soprattutto in relazione con le creature più deboli della storia umana. La Chiesa cattolica ha sempre creduto alla comunità dei vivi e dei morti. Nella loro indisponibilità, i morti sono con noi e noi abbiamo una responsabilità nei loro confronti. Vorrei aggiungere un altro pensiero. Quando una creatura umana, ma anche animale, riceve un nome, questo nome trascende il nulla, non è più sostituibile dal nulla. Così rimane un “resto” che non ci appartiene, che non fa più parte del mondo entropico. Con il nome, ogni esistenza riceve una dimensione che non può concludersi definitivamente. Il nome è il segno di un’apertura, di un futuro che non può divenire mai completamente un passato destinato a diventare nulla. Quindi, il dono del nome è l’inizio della risurrezione.

 

L’insieme delle ricche riflessioni fin qui sviluppate richiede quantomeno una definizione teologica della risurrezione di Cristo…

 

Per capire cosa vuol dire “risurrezione” nella tradizione biblica, si deve ricordare prima di tutto cosa esprime il concetto biblico di “umano”. Nella Bibbia, l’uomo non esiste mai come un’entità separata, sola, ma in quanto parte di una comunità. L’uomo non vive da sé e per sé, ma egli vive per l’Altro. Detto biblicamente, l’uomo non rappresenta solo se stesso, ma anche la comunità. In questo modo, Adamo diventava il rappresentante e il simbolo di tutta l’umanità. Detto più esplicitamente, Adamo è stato il rappresentante di un’umanità profondamente intrecciata nella colpa e nella violenza. Il segno di questa violenza è la croce: le espressioni più elevate della cultura occidentale al tempo di Gesù – Roma e Gerusalemme – non potevano sopportare l’umanità di Gesù e per questo l’hanno crocifisso. Dio risponde a tale violenza non con altra violenza, ma con un segno di vita che si esprime nella risurrezione di Gesù: il Gesù ferito e risorto diviene, al posto di Adamo, il nuovo simbolo dell’umanità e perfino di tutta la creazione di fronte a Dio. Egli diviene pure il simbolo di Dio JHWH di fronte alla creatura. Già il Gesù “terreno” non ha vissuto per sé, ma ha messo la propria vita a servizio degli altri. La risurrezione significa dunque una conferma divina dell’esistenza di Gesù per gli altri. L’uomo di Nazareth diventa il rappresentante addirittura della creatura più miserabile. Per questo, è possibile riassumere l’intera etica cristiana in una sola frase: agisci come se incontrassi Gesù Cristo nella creatura più debole e più miserabile. È in questa maniera che si deve intendere la risurrezione ieri, oggi e in futuro.

 

In Ewiges Leben? (Piper, 1983) il teologo svizzero Hans Küng ha parlato principalmente della risurrezione come di una metafora, di un’espressione immaginaria ripresa dal vocabolario semantico del riposo e del sonno, in seguito adottata per esprimere l’ingresso di Gesù nella vita e nella dimensione di Dio. Non sembra un’interpretazione convincente…

 

L’interpretazione di Küng non è completamente sbagliata perché, come ho già ribadito, con “risurrezione” è possibile intendere un “trasferimento” del nostro spazio-tempo nel mondo dell’eschaton – una metafora appunto. Questo mondo è un mondo dei segni e della poesia. L’errore si presenta laddove si crede che, dietro il mondo dei segni, si trovi ancora un mondo fisico oggettivabile, indipendente dal mondo simbolico, sicché la risurrezione e i miracoli sarebbero “solo” da intendere metaforicamente. Tuttavia, è decisivo che lo spazio-tempo venga elevato nel mondo dei segni. Ho già menzionato il fatto che, in tedesco, esiste la parola aufheben – che vuol dire “conservare”, “elevare” e “rendere inoperoso”. Il mondo fisico è, in questo senso, aufgehoben nel mondo dei segni. Si tratta di un pensiero decisivo per una corretta comprensione della risurrezione. Il mondo fisico non è annientato e non continua neppure a esistere come prima, tale e quale. Infatti, esso è trasformato.

 

Lo stesso Küng ha esitato nell’interpretare la risurrezione di Cristo in senso corporale. Negando la risurrezione dei resti mortali, del cadavere-corpo, egli ha optato per un’interpretazione decisamente più personale ed esistenziale che fisiologica. Crede che sia in gioco semplicemente l’identità della persona e non la continuità del corpo fisico?

 

Anche qui non si tratta dell’alternativa “fisiologico” o “esistenziale”. Già nel battesimo, che non è solo un evento puntuale, il nostro corpo non può più essere considerato solamente in senso fisiologico. Ma il corpo fisiologico viene trasformato nel corpo di Cristo, nel corpo della Chiesa, nel corpo di un mondo dei segni. Il corpo fisico non perde il suo significato, ma viene trasfigurato, un evento che si osserva in ogni gesto di amore, in ogni incontro umano. Se si ama veramente un altro uomo o una donna, si ama il corpo di questa persona, e le sue peculiarità che vengono amate rimandano oltre ciò che è immediatamente visibile.

 

Di fronte ai progressi scientifici e tecnologici, nel contesto dell’affermazione del transumanesimo, sorgono due domande: ha ancora senso credere nel Cristo risorto? Quale linguaggio adottare per esprimere questa realtà?

 

La teologia deve sviluppare un linguaggio poetico, in collaborazione con l’arte e la filosofia. Questo linguaggio deve essere sensitivo, erotico e politico nel senso più profondo. Niente deve sottrarsi alla sua attenzione. In verità si deve solo fare quanto si verifica nella liturgia, dove infatti avviene la trasformazione della materia, dunque del pane e del vino, in un segno, Cristo. È questo il motivo per il quale nella teologia devono essere coltivate la poesia, la filosofia e la cultura.

 

La teologia potrebbe quindi aiutare a superare la distanza culturale che separa l’uomo moderno dall’universo mentale nel quale si espressero gli evangelisti, senza con ciò cancellare lo scandalo cristiano del Dio crocifisso e risorto dai morti.

 

La teologia ha sviluppato un intero cosmo di nozioni e di traduzioni concettuali. Come la Chiesa cattolica in generale, anche il mondo teologico esprime un impressionante programma estetico. Ogni pensiero, ogni momento della realtà possiede il suo ordo e la sua estetica. Nondimeno, esiste il pericolo che questo mondo divenga autoreferenziale e trascuri le sfide della cultura contemporanea. La teologia, che in un certo senso rappresenta l’ultima disciplina veramente universale nel nostro mondo, deve sviluppare sempre di nuovo dei metodi per interpretare la cultura, offrire strumenti per cogliere i fermenti culturali, politici e sociali di un’epoca. Essa deve aiutare a comprendere e criticare la società. Penso che le categorie teologiche possano aiutare a capire a fondo la letteratura, i film e gli sviluppi socio-politici del pianeta. In questo senso, la teologia riuscirà a superare le distanze culturali se riesce a guardare oltre il proprio ambito disciplinare. Papa Francesco colpisce la quotidianità dei suoi ascoltatori e la trasforma, riesce a parlare la lingua degli uomini d’oggi, e tuttavia non perde mai di vista la cosa essenziale: nella croce siamo riconciliati con Dio, con gli altri e con noi stessi. Nel segno della croce è possibile accettare la nostra finitudine e incontrare la gioia e la gloria di Dio anche nell´incontro del più piccolo. In questa capacità di collegare il centro della fede cristiana con la cultura odierna si può ritenere Francesco uno tra i teologi veramente bravi di oggi.

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