Papa Francesco (foto LaPresse)

La riforma del sistema economico vaticano stenta a decollare

Matteo Matzuzzi

Tra spioni e delatori c'è grande difficoltà a mettere in pratica la riforma delle riforme. E non è detto che sia un male

Roma. Più o meno all’ora in cui Bergoglio incontrava i generalissimi birmani, dal torrione dello Ior veniva fatto uscire – non s’è ancora capito bene se garbatamente o con toni ultimativi – Giulio Mattietti, vice del direttore generale Gian Franco Mammì. Senza motivazioni ufficiali ma con una ridda di indiscrezioni che facevano pensare più a un copione cinematografico, con i gendarmi a scortare fuori dalle sacre mura il funzionario con alle spalle due decenni di lavoro in Vaticano. Poi, giorni dopo, ecco lo scarno comunicato dell’Istituto per le opere di religione che (senza mai menzionare Mattietti) sottolineava come “i provvedimenti enfatizzati in questi giorni dai mezzi di comunicazione sono pienamente legittimi e si inquadrano nelle normali e fisiologiche vicende della gestione”. Una vicenda che ricorda sotto parecchi aspetti quella della cacciata del revisore generale, Libero Milone. Anche qui, all’inizio, si parlò di divorzio consensuale e per mesi la versione ufficiale resse. Poi, in un’intervista a diversi media internazionali, Milone tuonava contro le alte gerarchie e la Gendarmeria, che sotto minacce e ricatti l’avrebbero costretto ad andarsene in fretta dal suo ufficio. Il giorno dopo, il principale accusato da Milone, il sostituto della Segreteria di stato, mons. Angelo Becciu, rispondeva a tono: “Risulta purtroppo che l’Ufficio diretto dal dottor Libero Milone, esulando dalle sue competenze, ha incaricato illegalmente una società esterna per svolgere attività investigative sulla vita privata di esponenti della Santa Sede”.

 

Commissioni e nomine

  

Casi singoli che però confermano l’enorme difficoltà a mettere in pratica la riforma delle riforme, quella che con più forza fu richiesta dai cardinali nel corso delle congregazioni che precedettero il Conclave del 2013, e cioè la ristrutturazione all’insegna della trasparenza di tutto il moloch economico e finanziario della Santa Sede. Una volta eletto, Francesco si diede subito da fare, istituendo commissioni ad hoc e provvedendo anche a spostare laici e porporati da posizioni occupate da tempo. Obiettivo: rendere trasparente ciò che fino a quel momento era percepito come avvolto dalle tenebre, opaco e misterioso. Terreno di scandali e misteri più o meno inquietanti. E allora ecco arrivare dall’Australia l’energico George Pell, fama da manager risoluto. Per lui la poltrona di primo presidente della segreteria per l’Economia, nuovo organismo creato appositamente per dare corso alla riforma dell’amministrazione finanziaria della Santa Sede. Accanto a lui, fu creata ex novo la figura del revisore generale. Terzo pilastro del piano, il rinnovo delle cariche interne allo Ior. Qualche cardinale (Schönborn, ad esempio) ne aveva proposto la chiusura, qualche altro una seria ristrutturazione. Altri ancora, peroravano lo status quo. Il Papa mediò e chiarì che “la chiesa è una storia d’amore… e lo Ior è necessario fino a un certo punto: come aiuto a questa storia d’amore”. Un anno dopo, un comunicato vaticano metteva la parola fine alla ridda di ipotesi: lo Ior rimaneva in vita per volontà papale, avendone constatata la necessaria opera al servizio della chiesa. Nel frattempo, si sgretolava la segreteria per l’Economia, tra guerricciole con la segreteria di stato per le competenze su dossier e forzieri, fuga di documenti poi puntualmente finiti sui giornali, lotte tra cardinali e delazioni varie. 

 

Oggi, a quasi cinque anni dall’avvio della lustracija vaticana, delle grandi riforme sul fronte finanziario è rimasto ben poco: la segreteria per l’economia vegeta mentre il suo prefetto, George Pell, è da mesi in Australia per difendersi dalle accuse di pedofilia vecchie di decenni e puntualmente tornate alla ribalta con la nuova fase della caccia al mostro. La carica di revisore generale è vacante da quando Milone è stato rimosso. Dello Ior – “Non so se san Pietro aveva una banca. Lo Ior non è fondamentale, non è sacramentale non è dogmatico”, disse il cardinale nigeriano Onaiyekan – si assiste al ricambio dei vertici, alle promozioni interne e si chiacchiera su un prossimo, imminente, avvicendamento alla guida, con il presidente Jean Baptiste de Franssu dato da mesi in uscita. “Francesco può essere confortato dal fatto che la maggior parte dei papi moderni prima di lui – Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI – siano tutti entrati in carica con ambiziosi obiettivi di purificare le operazioni vaticane e, in una certa misura, non sono riusciti a farlo”, ha scritto il vaticanista americano John Allen. Il che indica quanto complesso sia mettere le mani in quel sistema. Il Papa preso alla fine del mondo l’ha capito subito, e dopo aver firmato chirografi, formato commissioni, dato credito a chi gli spiegava che in due mesi avrebbe reso le possenti mura vaticane trasparenti come cristalli, ha delegato, lasciando fare la segreteria di stato e limitandosi a ribadire che tutto sarebbe dovuto avvenire con trasparenza e onestà. A chi sottolinea la distanza tra la volontà di avere una chiesa povera per i poveri e l’opacità del forziere vaticano, vale la risposta che diede qualche tempo fa Guzmán Carriquiry, segretario delegato alla guida della Pontificia commissione per l’America latina e amico di Jorge Mario Bergoglio: “Non si può abolire lo Ior: gran parte della chiesa del mondo è povera, ha bisogno di finanziamenti per costruire scuole, ospedali, centri di assistenza, seminari”. Altro che riciclaggio.

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  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.