Carlo Caffarra (foto LaPresse)

Caffarra, il dottrinario rimasto prete

Matteo Matzuzzi

Da Newman all'alta velocità, con Caffarra ogni chiacchierata era leggendaria

Roma. “Preferirei che si dicesse che l’arcivescovo di Bologna ha un’amante piuttosto che si dicesse che è contro il Papa”, diceva Carlo Caffarra rispondendo alla domanda sui suoi dubia e le differenze di vedute con Francesco circa la morale famigliare. “Sono nato papista e voglio morire papista”, chiariva scandendo bene le parole. L’abbraccio con Francesco, lo scorso inverno a Carpi, poi, aveva confermato la stima. Da grande professore qual era, tra i massimi esperti di Teologia morale sul pianeta, a lui piaceva dissertare, disquisire, animare dispute di livello altissimo, tant’è che ogni volta che lo si intervistava era obbligatorio accendere tutti i registratori a disposizione. Per non perdersi nulla del ragionamento svolto con una mole di libri e fotocopie poggiate sul tavolo, sottolineate e piene d’appunti. Anche l’ultima volta che ha parlato con il Foglio, lo scorso 4 gennaio, andò così. Quella volta, sul tavolo della residenza dove si era ritirato, accanto al Seminario, aveva la Lettera al duca di Norfolk. La leggeva e si soffermava sui passi più salienti, intervallando il tutto con citazioni in latino mandate a memoria e aneddoti vari.

 

Ma Carlo Caffarra era tutt’altro che il rigido cattedratico limitato a cercare d’indottrinare l’astante. Si passava da sant’Agostino alla funzionalità della nuova stazione sotterranea dell’alta velocità di Bologna, dall’urbanistica ai dogmi della chiesa come si chiacchierasse tra amici, e non a caso i primi ricordi, “colmi di tristezza” come quello del successore di Caffarra a Bologna, mons. Matteo Zuppi, tendono a ricordarne l’allegria, la bonomia e la leggerezza con cui trattava le cose di questo mondo, dal più leggero al più grave. Eppure, dietro il sorriso da don Camillo, sovente in contesa con le derive moderniste della rossa Bologna, protestando ad esempio per le disposizioni su “genitore A e genitore B” al posto di “mamma” e “papà”, si celava un pastore di cultura vastissima.

  

È a lui che Giovanni Paolo II volle affidare nel 1981 la guida del Pontificio istituto per studi su matrimoni e famiglia (lo dirigerà per quattordici anni) ed è lui che sempre il Papa polacco volle sulla cattedra che per due decenni era stata occupata da un gigante del calibro di Giacomo Biffi. Sarà poi Benedetto XVI, nel suo primo concistoro, a farlo cardinale. “Mi dispiacerebbe essere stato l’ultimo cardinale di Bologna”, ci diceva a registratori spenti, commentando la volontà di Francesco di premiare le periferie anziché le diocesi per tradizione associate alla porpora. “Non vorrei avere questo privilegio, ecco”, aggiungeva sorridendo. È morto nel suo letto, un po’ come il cardinale Joachim Meisner, suo amico, che esattamente due mesi fa se n’era andato in silenzio, senza che nulla lasciasse presagire quanto poi accaduto. L’ultima sua preoccupazione è stata per i sacerdoti, quelli giovani e quelli vecchi, mandati in un mondo dove il Male tenta di farsi strada con sempre più forza.

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  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.