Così i pm sono diventati i protagonisti dei processi. La lezione di Canzio

Massimo Bordin

Il dibattimento, dove la prova doveva formarsi di fronte ai giudici attraverso la parità delle parti in causa, è ormai marginalizzato non solo mediaticamente, dall’indagine preliminare

Una significativa ricostruzione dei problemi del processo penale nel nostro paese è stata proposta, in un seminario organizzato a Roma dalla Unione delle camere penali, da Giovanni Canzio. L’ex primo presidente della Corte di cassazione ha analizzato i problemi causati dalla “fragile perfezione” della riforma del codice di procedura penale di cui ricorre ormai il trentesimo anniversario. Il passaggio dal rito inquisitorio a quello accusatorio fu un momento storico, che aggredì il ”monolite autoritario” (la definizione è di Franco Cordero) del codice fascista. Trent’anni dopo la già tardiva riforma, il presidente Canzio prende a prestito dalla cultura industriale il termine “delocalizzazione” per descrivere la sorte attuale del processo. Il dibattimento, dove la prova doveva formarsi di fronte ai giudici attraverso la parità delle parti in causa, è ormai marginalizzato non solo mediaticamente, dall’indagine preliminare, vero luogo di produzione del processo, governato non dal giudice ma dal pubblico ministero.

 

La delocalizzazione ha conseguenze, prosegue implacabile il ragionamento di Canzio, non solo sul singolo atto giudiziario ma per così dire sull’intera catena produttiva. Per esempio, sulla questione della prescrizione che nel 70 per cento dei casi scatta già nelle indagini preliminari e dunque è governata dai pm molto più che dai giudici così come il tipo di procedura, che discende dal capo di imputazione che la procura propone. Per Canzio la soluzione sta nel rafforzamento del ruolo del giudice terzo nella fase delle indagini, piuttosto che nella separazione delle carriere. Una soluzione diversa da quella proposta dagli avvocati ma una analisi altrettanto critica.

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