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Identità di genere

Può una sentenza di un tribunale decidere che cos'è una donna? Un caso

Marina Terragni

Cambi di sesso, le ultime frontiere del genderismo. Dal Mediterraneo, con la sua cultura millenaria delle differenze, possono arrivare indizi di un altro modello di libera significazione di sé

La domanda che farei a Emanuela, cinquantatreenne di Erice che il Tribunale di Trapani ha riconosciuto donna nonostante il corpo maschile intatto – né chirurgia né ormoni – è la solita: che cos’è una donna? Emanuela dice: “Da piccola ero una bambina, mi piacevano i sentimenti, le relazioni, giocavo con la mia sorellina, mettevamo i tacchi…”. La sentenza che la riconosce donna poggia su un pronunciamento della Cassazione che nel 2015 ha consentito a una trans di legittimarsi donna prima dell’operazione (già programmata): “L’organo sessuale maschile” si afferma “non è di impedimento alla percezione di sé come donne”. Sempre nel 2015 la Corte costituzionale ha affermato che l’intervento chirurgico “non costituisce prerequisito per accedere al procedimento di rettificazione, ma è solo un possibile mezzo, rimesso alla scelta del soggetto, funzionale al conseguimento di un pieno benessere psicofisico”. In queste e in altre successive sentenze la materialità del sesso butlerianamente perde consistenza a favore del sesso fantasticato o identità di genere. La sola volontà però non basta. Tocca al giudice, come a un demiurgo – maschio e femmina li creò – accertare “la serietà, univocità e definitività” della transizione. Ma così, donna senza nemmeno un grammo di estradiolo, in Italia non era mai successo. 

Non è proprio un self-id, dove per cambiare sesso basta la trascrizione di un qualunque travet dell’ufficio anagrafe: qui c’è una sentenza. Anche Emanuela si dice contraria al self-id. Ma tutto spinge in quella direzione. Per la legge 164/82, tra le prime sulla transessualità, la materialità del sesso contava eccome. Si trattava di rendere meno drammatica l’esistenza di uomini che i loro genitali di carne se li erano fatti asportare in qualche clinica di Londra o Casablanca, aggiustati alla bell’e meglio con pseudo vagine, protesi mammarie, ormoni autoprescritti a capocchia e litri di silicone nei glutei. Sui documenti di questi cristi il nome maschile pesava come una croce. Lo spirito di quella e altre leggi era compassionevole. 

Oggi, tutt’altro mondo: “Nessuno pensava a maschi con i genitali intatti che avrebbero voluto accedere agli spazi delle donne” dice Robert Wintemute, docente al King’s College di Londra e attivista gay che nel 2007 partecipò alla stesura dei Princìpi di Yogyakarta, decalogo che ha ispirato le successive politiche trans. Allora i transessuali erano questo, maschi che si facevano operare. Oggi Wintemute, pentito, ammette che “i diritti delle donne non sono stati considerati”. Emanuela è persona gentile, forse non imporrebbe mai a una donna il disagio di dover sopportare il suo corpo maschile, riconoscendo anche a lei il diritto al “benessere psicofisico”. Ma magari tra “gli altri” che, come si augura, si avvarranno della sua vittoria potrebbe esserci gente come quella che spaventa Wintemute: maschi che si dichiarano donne e accedono alle case-rifugio e agli spogliatoi femminili; ottengono di scontare la pena in carceri femminili (negli stati americani dove si può fare si sono moltiplicate le molestie, perfino casi di gravidanza: le lettere delle detenute sono strazianti); usufruiscono di quote per le donne; invadono con i loro ultracorpi gli sport femminili; falsano le statistiche, non più sex based ma gender based. Proprio per queste ragioni la Germania ha bloccato last minute la legge sul self-id in arrivo. 

Insomma: che cos’è una donna? Una che può essere madre, dice Luisa Muraro (può, non deve: il registro è simbolico). Direbbe lo stesso un antico femminiello napoletano, creatura nata maschio che da subito, come Emanuela, ha provato nu sentiment ’e femmena, ha voluto restare nei pressi della madre, vivere con le donne accolto e autorizzato da loro. Un “apprendista-donna” per il quale prendersi cura degli altri è l’attività decisiva. Ma un femminiello non si dice donna, accetta la propria terzietà sacra che rafforza il binarismo sessuale. La sua è una performance di genere tanto interiore – propensione alle relazioni e alla cura – che esteriore. La scena è soprattutto quella domestica ma anche il cortile o il vicolo, il tessuto delle reti familiari e di vicinato. Per la studiosa Corinne Fortier, i femminielli “affermano che non potranno mai essere all’altezza di una donna, dal momento che manca loro la capacità riproduttiva (…) La femminilità è legata al fatto di procreare e fare bambini, significativamente chiamati ‘creature’”. Il genderism ha cambiato drasticamente lo statuto. I nuovi femminielli si nominano trans, ricorrono a pratiche mediche, chiedono di essere riconosciuti donne, sostengono l’identità di genere. La tassonomia e la tecnica prendono il posto del sacro.

Eppure, suggerisce l’antropologo Eugenio Zito, “il femminiello… potrebbe rappresentare ancora oggi, come nel passato, un modo per risolvere i problemi di ‘confine’ attraverso un riassetto dell’identità personale che si sposta continuamente, sintesi unica di arcaicità e sorprendente postmodernità”. Dal Mediterraneo con la sua cultura millenaria delle differenze possono arrivare indizi di un’altra strada possibile e di un altro modello di libera significazione di sé.

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