La luce del libero mercato

Carlo Stagnaro

Portare la logica protezionista alle sue estreme conseguenze, un esercizio ancora utile

Il sostantivo più pericoloso della lingua italiana è: “indotto”. Nella “Petizione dei fabbricanti di candele”, Frédéric Bastiat non lo usa, ma potrebbe tranquillamente farlo. Questo paradossale brano tratto dai “Sophismes économiques” mette in evidenza le assurdità del protezionismo, prendendone sul serio la logica e portandola alle sue estreme conseguenze. Bisogna sottolineare, però, che quando Bastiat parla di protezionismo si riferisce in generale a ogni forma di restrizione anti concorrenziale.

 

Nel 1845 la concorrenza era essenzialmente la competizione internazionale e quindi le due cose nella pratica coincidevano. Oggi, l’argomento dell’economista francese potrebbe essere tranquillamente riprodotto in una vasta gamma di casistiche: quotidianamente leggiamo la petizione dei tassisti contro Uber, dei notai contro la blockchain, dei farmacisti contro la liberalizzazione dei farmaci di fascia C, e molte altre. Anch’esse, come quelle dei fabbricanti di candele, poggiano su un ragionamento apparentemente cristallino, ma sostanzialmente bacato, che inverte cause ed effetti, e pretende di mettere al bando futuri vantaggi per l’intera società allo scopo di tutelare i privilegi presenti di alcune categorie.

 

Nel 1845 la concorrenza era la competizione internazionale. Oggi, quel ragionamento riguarda una vasta gamma di casistiche.

La forza della "Petizione" sta nella logica ferrea dei suoi passaggi, che mostrano l'insensatezza dei presupposti del protezionismo.

Torniamo, allora, al 1845. Bastiat attribuisce la sua petizione ai rappresentanti delle industrie nazionali delle “candele, ceri, lampade, candelieri, lampioni, smoccolatoi, spegnitoi; e i produttori di sego, olio, resina, alcool e in generale tutto ciò che concerne l’illuminazione”. Tutto il settore e le sue associazioni di categoria, diremmo ogg). Questa specie di Confindustria ante-litteram si rivolge ai deputati sfidandoli ad applicare la “pratica senza teoria e senza principi” (il protezionismo) alla concorrenza spietata di un rivale così terribile che fornisce i propri servizi senza chiedere nulla in cambio: il sole. Per colpa sua, dicono i firmatari dell’appello, non solo l’industria nazionale, ma anche tutti quelli che si sviluppano attorno a essa (“l’indotto”, appunto) non possono combattere ad armi pari il loro concorrente, che così ruba posti di lavoro e mette in ginocchio intere filiere produttive.

 

La logica di Bastiat è ineccepibile: se rifiutiamo un prodotto straniero sulla base del fatto che costa meno di quello nazionale – e quindi è come se parte di esso fosse un regalo dall’estero– allora dovremmo rigettare a maggior forza un servizio che arriva del tutto gratuitamente, come la luce del sole. Ergendo muri a difesa dell’industria autoctona e contro la concorrenza sleale del sole, proseguono i fabbricanti di candele e i loro sodali, metteremmo in moto processi virtuosi, dando lavoro non solo all’industria stessa, ma anche a tutti i suoi fornitori (l’indotto, appunto).

 

Il ragionamento è, evidentemente, assurdo, perché sorvola sull’aspetto cruciale: grazie al sole, i consumatori spendono meno per illuminare le loro case. Ma queste risorse non si dissolvono nell’aria: possono essere utilizzati per acquistare altri beni o servizi. La ricchezza di un individuo e, a fortiori, di una nazione non dipende dal valore nominale dei suoi redditi, ma dal paniere di prodotti che può acquistare. Se il sole ci offre la luce e quindi spendiamo meno per le candele (o le lampadine), possiamo mangiare cibi migliori o indossare vestiti più raffinati e, quindi, siamo più ricchi. Allo stesso modo, se i prodotti stranieri – pur non essendo gratuiti – costano meno di quelli nazionali, con la differenza possiamo soddisfare dei bisogni che, altrimenti, rimarrebbero meri desideri.

 

Bastiat aiuta a mettere a fuoco le conseguenze negative del protezionismo(e, in generale, delle politiche anti concorrenziali. Dazi e regolamentazioni impoveriscono i consumatori e, attraverso di essi, l’intero paese. Certamente le barriere agli scambi vanno a vantaggio di specifiche industrie, ma in ultima analisi distruggono valore, perché riducono il potere d’acquisto dei salari e dei risparmi, impediscono ad altri produttori di affacciarsi sul mercato, e ad altri lavoratori di trovare un’occupazione.

 

Un utilizzo inefficiente delle risorse ha anche un altro effetto, cioè quello di frenare l’innovazione. L’innovazione esiste proprio perché, per conquistare clienti e profitti, le imprese cercano di sviluppare prodotti diversi e migliori. Se però volumi e margini sono messi al sicuro da tasse e leggi, allora non c’è alcuna ragione di rischiare e tentare l’azzardo di immettere sul mercato un nuovo bene, che i consumatori potrebbero scegliere ma potrebbero anche rifiutare.

 

Andando a ritroso, nella prosa di Bastiat si rintracciano le fallacie logiche del protezionismo. La prima consiste nell’idea che il lavoro sia un prodotto, e non un fattore della produzione – un output, e non un input. L’obiettivo dell’economia non è produrre posti di lavoro, ma generare beni o servizi che siano desiderati dai consumatori. Il lavoro (assieme al capitale) è strumentale a produrre quei beni o servizi. Se l’obiettivo della politica economica fosse quello di massimizzare l’occupazione in un dato settore, del resto, la scelta più razionale sarebbe quella di vietare ogni forma di innovazione e mettere al bando ogni incremento di produttività. Altro che tassa sui robot!

 

Una seconda fallacia, strettamente connessa, è legata alla cosiddetta “ossessione manifatturiera”: poiché l’industria è relativamente più labor-intensive dei servizi, allora è facile farsi tentare dal pregiudizio per cui solo nell’industria si trovi occupazione buona e stabile. L’esperienza degli ultimi decenni, invece, ci mostra che il declino della componente manifatturiera del Pil è una tendenza di lungo termine tipica delle società avanzate. Proprio grazie ai guadagni di produttività resi possibili dallo sviluppo tecnologico, il settore manifatturiero occupa relativamente meno persone, mentre altre opportunità si creano altrove nell’economia.

 

L’errore logico di fondo, però, non attiene a specifici aspetti ma al modo stesso di ragionare dei fautori del protezionismo: essi leggono i fenomeni sempre e solo come equilibrio parziale, perdendo di vista l’equilibrio economico generale. Un dazio o una regolamentazione protezionistica avrà inevitabilmente l’effetto di favorire l’industria target. Alla fine della giornata questo non può che essere un gioco a somma negativa, perché implica necessariamente un trasferimento forzoso di risorse del consumatore a quell’industria anziché ad altre (infatti, in assenza di vincoli, il consumatore avrebbe scelto altrimenti). E’ quindi inevitabile che egli si troverà meno soddisfatto, e che altre imprese o lavoratori si vedranno negare la possibilità di produrre essi stessi del reddito. Il canale attraverso cui passa questo impoverimento, vale la pena ribadirlo, è la menomazione della libertà di scelta. Il protezionismo equivale allora a un divieto di allocare le risorse in modo efficiente, col risultato di erodere gli incentivi alla differenziazione e all’innovazione dei prodotti dal lato dell’offerta, e di introdurre vincoli che impediscono la massimizzazione dell’utilità dal lato della domanda. Le norme protezionistiche e anticoncorrenziali sono una tassa sul progresso e sul benessere.

 

La forza della “Petizione” di Bastiat sta nella logica ferrea dei suoi passaggi, che mostrano come – accettando i presupposti del protezionismo – non si possa che arrivare a conclusioni che il buonsenso rifiuta. E’ la classica dimostrazione per assurdo: se una serie di deduzioni in sé corrette conduce a un esito palesemente insensato, devono essere sbagliate le premesse. Verrebbe voglia di chiosare Bastiat con le parole di Lord Henry, il “diavolo tentatore” di Dorian Gray: “Che cosa tremenda! Io posso sopportare la forza bruta, ma la ragione bruta è insopportabile. L’uso di essa è antisportivo; è un colpo basso vibrato all’intelletto”.

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