Il creatore di Dolly, il professor Ian Wilmut, nel 2005 a Edimburgo (Foto di Christopher Furlong/Getty Images) 

bandiera bianca

Con il "padre" della pecora Dolly, se ne va anche la nostra adolescenza

Antonio Gurrado

Abbiamo interiorizzato e digerito la distopia che ci spaventava e ne abbiamo fatto la compagna di viaggio quotidiana che accettiamo con un misto di disinteresse e rassegnazione

Trafiletti nascosti, scarne noterelle accompagnano all’altro mondo Ian Wilmut, l’uomo dietro la clonazione della pecora Dolly. Consentitemi di indulgere al ricordo – era il 1997 e, quando la notizia raggiunse me adolescente, fu accompagnata da lunghi dibattiti e severe preoccupazioni, dilemmi etici (sarebbe giusto clonare l’uomo?) e interrogativi inquieti (cloneranno l’uomo? cloneranno me?), il tutto rimestato in una salsa distopica che lasciava presagire un futuro di umanoidi, di mutanti, o quanto meno di infinite pecore tutte uguali. Ora viviamo in quel futuro, con la carne sintetica, i robot che ci rispondono, innumerevoli modi per produrre un bambino, uomini che si trasformano in cani, turisti che vogliono andare sulla Luna e gente che si sposa da sola; abbiamo interiorizzato e digerito la distopia che ci spaventava, l’abbiamo fatta compagna di viaggio quotidiana che accettiamo con un misto di disinteresse e rassegnazione. L’adolescenza – mia e di tutti – è finita. Tanto che, se oggidì arrivasse qualcuno ad annunciarci che per la prima volta è stata clonata una pecora, reagiremmo forse con un certo sollievo: “Finalmente una cosa normale”.

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