Un'udienza del processo Mafia capitale (foto LaPresse)

Erano criminali, non mafiosi

Massimo Bordin
“A Ostia la mafia c’è, ed è un territorio più mafioso che corrotto, a differenza di Roma che è più corrotta che mafiosa”. Dopo la sentenza della seconda corte d’appello romana, che ha assolto da ogni reato di mafia i membri delle famiglie Fasciani e Triassi, Alfonso Sabella dovrà rivedere questo suo giudizio.

Roma. “A Ostia la mafia c’è, ed è un territorio più mafioso che corrotto, a differenza di Roma che è più corrotta che mafiosa”. Dopo la sentenza della seconda corte d’appello romana, che ha assolto da ogni reato di mafia i membri delle famiglie Fasciani e Triassi, Alfonso Sabella dovrà rivedere questo suo giudizio, almeno riformularlo in modo meno simmetrico e più sfumato. Fu proprio Sabella, da assessore alla Legalità della giunta Marino, a ricoprire l’incarico di commissario straordinario per il municipio di Ostia dopo che il suo presidente, Andrea Tassone del Pd, nell’aprile 2015 era finito agli arresti domiciliari. Ad agosto dello scorso anno il municipio venne sciolto per infiltrazioni mafiose e fu nominato un commissario governativo, tutt’ora in carica. Ora la sentenza di due giorni fa complica le cose anche da questo punto di vista. E c’è da scommettere che in qualche modo gli imputati sgravati dal peso del reato di mafia proveranno a rientrare in possesso dei beni loro sequestrati. Ma non sono le ripercussioni ostiensi a costituire il problema principale. La sentenza si riverbera innegabilmente sul processo in corso nell’aula bunker di Rebibbia, colpendo nella trama la costruzione dell’immagine di “Mafia Capitale”. Attenzione però. Da un punto di vista tecnico-giuridico l’accusa può provare a parare, o almeno ammorbidire, il colpo.

 

L’assunto della procura è che l’organizzazione, con al suo centro Carminati, sia di tipo reticolare e affasci diverse bande criminali in varie zone della città, rendendole funzionali a un progetto di controllo non solo delle attività criminali ma anche di quelle imprenditoriali e della pubblica amministrazione. Il controllo si fonda sulla forza di intimidazione basata sulla potenza di una organizzazione percepita come capace di esercitare ovunque massimi livelli di violenza. Questo basta, secondo gli inquirenti, a sostanziare il reato di associazione di tipo mafioso, indipendentemente dal dialetto parlato dagli imputati e dalla latitudine in cui operano. Se si ricordano molte delle infografiche che hanno riassunto l’inchiesta di Roma su quotidiani e settimanali, si ricorderà che lo schema è sempre stato quello di una specie di sistema solare con al centro Carminati e intorno, come satelliti, assessori e dirigenti comunali, capi banda delle varie zone di Roma. Non solo i pittoreschi Casamonica, ma anche il camorrista Michele Senese, detto “’o pazzo” e soprattutto i Triassi di Ostia, che vengono da Siculiana. Ora la procura può sostenere che non è essenziale che Triassi e Fasciani siano marchiati con il  416 bis. Nel processo “mafia capitale” non sono imputati e i reati per i quali sono stati comunque condannati sono funzionali alla organizzazione reticolare delineata dalla procura e tanto potrebbe bastare, se si accetta la teoria sul reato di mafia elaborata all’inizio dell’inchiesta.

 

E’ innegabile però che ci si troverebbe di fronte a un copione diverso da quello prospettato in innumerevoli ricostruzioni giornalistiche, in qualche libro di successo, perfino in un film. Questo spiega fra l’altro la reazione di alcuni giornali oggi: la sentenza di appello cambia la rappresentazione della storia fin qui narrata, lo spessore criminale derubricato da mafioso a comune riduce da un punto di vista processuale la forza di intimidazione ma soprattutto ridimensiona la capacità di mediazione e l’autorevolezza dei principali imputati non più utilizzatori e coordinatori di spezzoni di organizzazioni criminali assai più forti di loro. Lo stesso “discorso programmatico”, come i carabinieri chiamano l’intercettazione nella quale Carminati espone la sua teoria sul “mondo di mezzo”, finisce per perdere forza suggestiva. Non un terreno nel quale un samurai e i suoi fidi sottomettono ai loro progetti i grandi poteri del crimine e della politica ma un incrociarsi di mariuoli variamente collocati nella società, con appetiti da saziare nel modo più rapido e illegale  possibile. Non una nuova specificità criminale ma l’eterna Italia alle vongole.