I funerali di Vittorio Casamonica (foto LaPresse)

Se tutto è mafia, nulla è mafia. All'origine di una forzatura legale

Francesco Forte
I Casamonica e affini a Roma non sono una mafia né in senso proprio, né secondo la dizione, già ampia, del 416 bis terzo e ultimo comma

Non capisco il gusto di autodenigrazione di chi ha definito lo sfarzoso funerale del padrino dei Casamonica come l’ennesima espressione del fenomeno “Mafia Capitale”. Ciò mi riporta al dibattito parlamentare sulla legge anti mafia del 1982, nel quale fu posta in votazione la definizione del nuovo crimine, cioè il reato “di stampo mafioso”. Io, allora, feci notare che la parola “stampo” non aveva alcun senso giuridico. La risposta, imbarazzata, del relatore del futuro articolo 416 bis del codice penale fu che voleva includere nelle organizzazioni mafiose, oltre alla mafia e alla ’ndrangheta, in cui c’è un vincolo associativo che crea l’assoggettamento pieno dei membri ai loro capi e l’omertà reciproca, anche la camorra, che è priva di struttura verticale. Io, insieme ad altri, allora chiesi che si sostituisse al termine “stampo” il termine “caratteri” e che poi li si precisasse. Ma, come spesso è accaduto nella storia italiana, alla fine si arrivò a un compromesso. L’espressione “di stampo mafioso” nel primo comma, venne rimpiazzata da “di tipo mafioso”. Nel terzo comma si descrissero i caratteri dell’associazione “di tipo mafioso” individuandoli-nebulosamente nella “forza di intimidazione dl vincolo associativo e della condizione di assoggettamento ed omertà che ne deriva per commettere delitti onde acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o comunque per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri”.

 

La forza di intimidazione era un termine, vago, per alludere all’uso della violenza fisica che caratterizza le organizzazioni mafiose a differenza di altre di natura criminale, come quelle di contrabbandieri. Tuttavia il termine “armi” non venne utilizzato per definire “la forza intimidatrice”, ma solo per una aggravante quando “l’organizzazione è armata”, cioè dispone di armi o materie esplodenti.

 

La camorra, che usa armi personali e non dell’organizzazione, comunque non risultava inclusa nel terzo comma, perché il vincolo associativo in essa è informale e non c’è un patto d’omertà “da fratelli di sangue”. Ma l’ultimo comma del 416 bis stabilì che le disposizioni in esso contenute “si applicano anche alla camorra e alle altre associazioni, comunque denominate, che avvalendosi della forza intimidatrice del vincolo associativo perseguono scopi corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo mafioso”.

 

In sostanza “lo “stampo mafioso” espulso dalla dizione esplicita del terzo comma, rientrava in modo implicito, nell’ultimo. Lo scopo del legislatore era, insomma, quello di impiegare la legge antimafia, con i suoi poteri eccezionali, anche quando non ci si sarebbe trovati di fronte a mafia o camorra. Si voleva dare alla magistratura un potere discrezionale, anche per un uso politico della giustizia. Peraltro io feci notare, senza fortuna, che in questo modo si distraeva l’attenzione dalla vera mafia. Come dice il filosofo “nel buio tutte le vacche sono grigie”. E molte vacche mafiose potevano pascere tranquille perché – gattopardescamente – si poteva combattere la mafia non mafia, con la legge anti mafia.

 

Lavoro da Quintino Sella, non da prefetto Mori

 

[**Video_box_2**]Rimane però indiscutibile che quella di Roma non è la mafia, e neppure rientra nella legge anti mafia. I Casamonica e affini non sono una mafia, né in senso proprio, né secondo la dizione, già ampia, del 416 bis terzo e ultimo comma. Si tratta di un’altra cosa, che rientrerebbe nell’ultimo comma solo sostenendo che il ricevere o no i benefici clientelari è una “forza intimidatrice”. Allora tutto è mafia, quando ci sono scambi di favori fra politici o burocrati e organizzazioni come cooperative, enti no profit, imprese, che danno luogo a mangiatoie grandi e piccole del denaro d’una macchina pubblica troppo grossa. Ma il contrasto, qui, è un compito da Quintino Sella, non da prefetto Mori.

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