Con queste tasse folli, non esiste politica industriale salutare

Jacopo Morelli

 La strategia “patchwork” del governo non basta per riprendere la Germania. Insiste sulla “via della schiavitù” (cit. Hayek)

Al direttore - L’articolo “Esiste o no una politica industriale di Renzi?” di Claudio Cerasa ricorda, sul finale, che “l’Italia, spesso lo dimentichiamo, è la seconda manifattura d’Europa dopo la Germania e ha una serie di posizioni da difendere con le unghie e con i denti”. Lo scopo di una politica industriale del XXI secolo dovrebbe essere quello di creare le condizioni perché il sistema produttivo di un paese, e i settori che lo compongono, siano nelle condizioni di competere, e meglio vincere, confrontandosi con le altre economie. Un governo, in altre parole, ha un’enorme responsabilità e capacità di influenza, dotando o meno la propria nazione di infrastrutture materiali, di infrastrutture digitali, di infrastrutture immateriali, come legalità e certezza di diritto, sicurezza, istruzione, burocrazia. Su tutti questi fattori si gioca la competitività.

 

In poche parti al mondo c’è una qualità di imprenditori come da noi, eppure, in poche parti al mondo, sono cosi penalizzati come in Italia. Ci sono regni, come l’Inghilterra, dove i sudditi sono cittadini e repubbliche, come la nostra, dove i cittadini sono sudditi. Negli anni, burocrazia, giustizia e leggi assurde hanno condotto le aziende, dalla libertà, verso la via della schiavitù, parafrasando Von Hayek. Quando l’Italia correva, questi vincoli non erano così pesanti e, dove si cresce nel mondo, non lo sono nemmeno oggi. Infine il fisco: quanto denaro lo stato drena a ogni impresa è elemento essenziale anche di politica industriale. Il nostro fisco è, senza timore di smentita, un “fisco da confisca”. Se le tasse non si tagliano sul serio, anziché solo negli slogan, l’evasione fiscale non si eliminerà mai e il paese non ripartirà. Il governo Renzi sta tamponando una serie di situazioni e crisi aziendali, ma non dispiega altrettanta energia nell’attuare provvedimenti e riforme capaci di far riprendere a camminare e poi a correre l’attività manifatturiera. Questa non è la politica industriale che serve al paese. Jobs Act e altre misure sono interventi ridotti e slegati da un disegno unitario. Basti pensare che, tra il 2000 e il 2014, il costo del lavoro per unità di prodotto è così salito: più 15 per cento in Germania, più 30 in Spagna, più 44 in Italia. Competitività al palo. Alcune novità introdotte nel Jobs Act sono dei passi avanti, ma non illudiamoci che abbiano effetti miracolosi, perché il lavoro è un fattore della produzione derivato e conseguente da un altro, che sono gli investimenti. Fanno piacere gli annunci di Fiat e Telecom che assumeranno qualche migliaio di persone, ma, se vogliamo aggredire sul serio la disoccupazione, dobbiamo pensare a come creare milioni di posti di lavoro. L’esperienza, anche internazionale, mostra che, su queste grandezze, le uniche in grado di farlo, velocemente, sono le nuove imprese e il tessuto delle piccole e medie. Sono scelte, quelle finora fatte, di piccolo cabotaggio, non il risultato di strategia. Nella favorevole situazione attuale, con la politica monetaria espansiva della Banca centrale europea che fa ancora diminuire lo spread, non perdiamo tempo: subito taglio pesante di tasse e di spesa pubblica. La spending review è invece desaparecida. Tutto è fermo per mancanza di volontà. Il problema è che molti politici dimenticano che non esistono soldi pubblici, ma soldi di chi paga tasse. Secondo la nota classifica Doing Business della Banca mondiale (che misura quanto è facile fare impresa), l’Italia risulta al 56esimo posto, contro il 14esimo della Germania. Nelle 42 posizioni che ci separano dai tedeschi, i primi manifatturieri d’Europa, stanno quelli che dovrebbero essere gli obiettivi di una seria politica industriale. Mettere al primo punto quello di ridare significato alla libertà d’impresa!

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