Il pozzo petrolifero di Hilal in fiamme (fonte: Twitter)

Provocatori libici

Daniele Raineri

Lo Stato islamico in Libia attacca in sequenza i pozzi di greggio, è una provocazione per l’Italia.

Roma. Giovedì notte in Libia la compagnia petrolifera di stato (Noc) ha dichiarato undici siti petroliferi  “non più operativi” per causa di forza maggiore – è una clausola contrattuale invocata per non pagare penali ai clienti. La forza maggiore in questo caso sono soprattutto gli assalti armati di non meglio specificate “milizie islamiste” – che sono sospettate di appartenere allo Stato islamico, il gruppo estremista che vuole imporre con la forza militare la creazione di un Califfato in Iraq e Siria.

 

La decisione è arrivata dopo che i militanti hanno occupato anche il pozzo di Al Dahra, circa 170 chilometri di deserto a sud di Sirte – una città sul mare che è occupata in parte dallo Stato islamico. Il video del massacro di 21 cristiani egiziani è stato filmato proprio sulla spiaggia di Sirte a poca distanza dal Mahari Hotel secondo fonti del Foglio. Giovedì gli aggressori sono arrivati su Al Dahra da tre lati, e questa è una tattica usata per lasciare una via di fuga ai lavoratori locali e non trasformare automaticamente l’assalto in una strage. Il governo di Tripoli ha lanciato alcuni attacchi aerei contro di loro, ma non è riuscito a fermarli e secondo Associated Press quando le guardie del pozzo hanno finito le munizioni e sono fuggite gli aggressori hanno saccheggiato gli edifici e ne hanno fatto saltare in aria alcuni.

 

Il 4 febbraio c’era stato un attacco simile contro il sito petrolifero di Mabrouk, dove gli aggressori hanno ucciso dieci guardie e hanno rapito sette cittadini stranieri e una settimana dopo, il 13, era toccato al pozzo di Al Bahi. Mabrouk, Bahi e ora Dahra sono pozzi vicini e disposti in sequenza progressiva su una retta che da Sirte va verso la zona dei pozzi e dà l’idea di un’avanzata tappa dopo tappa. Secondo Reuters il sito di Mabrouk produceva quarantamila barili di greggio al giorno, circa un decimo della produzione attuale del paese. Nel periodo precedente alla rivolta locale appoggiata dalla Nato contro Muammar Gheddafi la Libia estraeva circa milione e seicentomila barili giornalieri. Il resto degli undici siti è stato chiuso per ragioni tecniche e assieme agli altri tre rappresentano il trenta per cento dei pozzi libici, dice ad Ap Khaled Ben Osman, capo del Consiglio nazionale per il greggio e il gas a Tripoli.

 

Gli assalti fanno parte di una strategia deliberata di provocazione da parte dello Stato islamico. Il gruppo ha puntato subito al controllo dei pozzi anche in Siria e Iraq, ma in questo caso c’è anche un elemento di sfida calcolata per attirare un intervento militare internazionale di terra, come il gruppo estremista ancora non è riuscito a fare in Iraq. L’arrivo di un contingente dall’estero sarebbe considerato dai baghdadisti manna dal cielo dal punto di vista della propaganda: un jihad nuovo di zecca contro truppe straniere. Una settimana fa sono circolate notizie sulla mobilitazione degli incursori italiani del Comsubin e si è detto che il loro compito è stazionare al largo della costa libica proprio per mettere in sicurezza un sito Eni nel caso la guardia locale libica lo lasciasse sguarnito.

 

In questo senso, gli attacchi in sequenza ai pozzi di greggio nel deserto a sud di Sirte sono il secondo binario di una pianificazione con effetto a lungo termine programmata dello Stato islamico. Il primo è, per ora, la violenza filmata e prodotta in alta definizione contro 21 ostaggi cristiani egiziani, ambientata sulla costa in faccia all’Italia e accompagnata da una minaccia esplicita contro Roma.

 

Lo Stato islamico in Libia non è nato per germinazione spontanea da un gruppo di simpatizzanti locali, ma è il frutto di un piano a lungo termine elaborato in Siria e Iraq per sfruttare l’anarchia libica. Di questo piano fa parte la figura religiosa più importante del Califfato, l’imam Turki al Binali – nato in Bahrein, che un anno fa è sbarcato in Libia per tenere sermoni e incontri preparatori e dottrinali nell’area di Sirte (oggi è a Mosul). A quel tempo non era ancora apertamente schierato con Abu Bakr al Baghdadi e quindi poteva muoversi liberamente – e usava uno pseudonimo per la dottrina che pubblicava su internet.

 

[**Video_box_2**]Uno dei leader riconosciuti del gruppo a Derna, in Cirenaica, è Abu Baraa al Azdi, un predicatore yemenita (secondo alcuni è saudita) mandato l’anno scorso dalla Siria per raccogliere attorno a sé i primi volontari. L’altro leader più importante è l’iracheno Abu Nabil, arrivato in Libia alla fine del 2014. Prima di arrivare a Derna è stato comandante dello Stato islamico per la regione (wilayat, come direbbero loro) di Salaheddin in Iraq. Il nome di Abu Nabil è importante perché compare nei file trovati dai curdi quando a giugno 2014 hanno ucciso il comandante militare di tutto lo Stato islamico, Abu Abdurahman al Bilawi, compagno stretto di Abu Bakr al Baghdadi. Esistono delle foto che mostrano Al Bilawi assieme al giordano Abu Mussab al Zarqawi, ucciso in Iraq dagli americani nel 2006 e così si realizza una continuità che nell’arco di sette anni porta da Baghdad a Bengasi: Zarqawi, al Bilawi, Abu Nabil. Inoltre la base del gruppo è formata da alcuni combattenti della katiba Battar, la brigata libica dello Stato islamico che combatte da anni in Siria. Evidentemente alcuni veterani sono stati rispediti in Libia a seguire il dossier locale.

 

Giovedì lo Stato islamico in Libia ha messo su internet un video in cui minaccia il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi e “il regime egiziano” – sempre parte di questa strategia della provocazione speranzosa in un intervento di terra straniero. E’ interessante fare caso ai kunya (i nomi di guerra usati dai militanti). Lo speaker nel video è egiziano, “al Masri”, e una settimana fa era uscito un video quasi uguale in cui lo speaker era saudita – “al Jazrawi”. Un attentatore suicida dello Stato islamico la settimana scorsa si firmava “Abu Talha al Tunisi”, il tunisino, due degli attentatori suicidi che il 27 gennaio hanno attaccato l’hotel Corinthia a Tripoli erano “al Sudani”, il sudanese, e “al Tunisi”, un altro tunisino. Yemen, Iraq, Arabia Saudita, Tunisia, Egitto, Sudan: lo Stato islamico sta mandando in Libia i suoi, aspettando che qualche nazione faccia la sua mossa e mandi i suoi soldati.

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  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)