Un momento della marcia in memoria di Boris Nemtsov, domenica a Mosca (foto LaPresse)

Quel realismo imperante che dà impunità e toglie sicurezza

Paola Peduzzi

Dopo l’omicidio di Boris Nemtsov probabilmente in Russia non cambierà nulla. Il realismo è tornato a governare il mondo e con Putin, comunque, dovremo continuare a negoziare - di Paola Peduzzi

Milano. Sono bastate poche ore di cordoglio, una piazza zeppa di slogan liberali (50 mila persone sono “tante” se collocate nel contesto russo, scrive su Twitter la commentatrice Julia Ioffe, ma “rispetto agli obiettivi desiderati, no”) e l’omicidio del leader antiputiniano Boris Nemtsov è già diventato materia buona per la cronaca nera e le teorie del complotto: la modella ucraina che accompagnava Nemtsov nella sua ultima passeggiata venerdì sera è sotto interrogatorio, la sua versione è farraginosa (è giovane, è bella, è ucraina: basta per essere presunta colpevole di qualcosa, no?), mentre le tv di stato insistono sull’arroganza dell’occidente, che essendo senza scrupoli potrebbe aver ordito l’assassinio per destabilizzare la Russia. I nazionalisti, con la loro voce forte che sovrasta il lutto, dicono che per forza Vladimir Putin non c’entra, perché avrebbe dovuto crearsi un guaio così grande già isolato com’è? E sospirando aggiungono: ci dispiace deludervi, ma non accadrà niente. Il Cremlino non sarà meno forte: c’è anche un dissidente di meno in giro, perché dovrebbe? Non accadrà niente, perché internamente il consenso di Putin è solido e perché la comunità internazionale ha già dimostrato di non voler fare granché: non l’ha fatto quando la Russia ha ridisegnato, a suo piacimento, i confini dell’Europa; non l’ha fatto quando un aereo malese con trecento civili a bordo è stato abbattuto nel cielo che sovrasta la guerra nell’Ucraina dell’est; non lo farà per un leader liberale ucciso in circostanze che via via diventano volutamente “strane” (valgono tutte le ipotesi, nell’omicidio Nemtsov, tranne quelle più probabili).

 

Dopo l’abbuffata idealista degli anni Novanta e dei primi anni Duemila, il realismo è tornato a governare il mondo, a cominciare dalla Casa Bianca del democratico Barack Obama, fino ad arrivare alla nostra Europa (fatte salve alcune eccezioni) straziata dai tormenti economici. Gli appunti del manuale realista sono più o meno questi. Con Putin si deve negoziare, perché il nostro interesse – inteso come l’interesse europeo, categoria normalmente inesistente – è salvaguardato se il dialogo è aperto. Con l’Iran si deve negoziare, perché c’è una nuova buona volontà da parte di Teheran (non misurabile dalle esecuzioni in piazza, in costante aumento, ma dalle promesse di una leadership strozzata dalla crisi e dall’isolamento) cui si deve dare seguito, perché la chiusura dura da troppi anni, e il business ne risente. Con Bashar el Assad, in Siria, si devono fare i conti, è un dittatore brutale, certo, ma immaginate cosa accadrebbe se dovessimo tentare di toglierlo di mezzo: finirebbe per contagiare anche la delicata politica iraniana, per non parlare della restaurazione jihadista (come se l’alleato di Teheran non fosse jihadista a sua volta). Con l’egiziano Abdel Fatah al Sisi è necessario e inevitabile collaborare, è l’unico che combatte l’islamismo con perizia, non ha un record umanitario specchiato, ma chi ce l’ha, di questi tempi?

 

[**Video_box_2**]L’elenco potrebbe continuare, ed è ovvio che nella classifica dei “figli di puttana, ma nostri figli di puttana” c’è chi lo è di più e chi lo è di meno. Ma se l’idealismo (inteso come la difesa dei diritti umani e della libertà) è trattato come se fosse un bambino capriccioso, se non apertamente irriso, il realismo non è che abbia portato una maggiore stabilità – che sarebbe il fine ultimo dei sostenitori dello status quo. Il regime russo è sempre meno sotto controllo e l’imprevedibilità di Putin è la più grande paura di tutti i vicini della Russia; il non intervento in Siria contro Assad ha dato campo libero alla nascita e alla creazione dello Stato islamico, che ora si sta espandendo proprio nei luoghi che l’occidente tratta con distacco (vedi la Libia); il patto con l’Iran, sulla carta, appare come una grande opera di disgelo diplomatico – che resterà nella storia come un passaggio rivoluzionario: Obama ha fatto la pace con l’Iran – che però non previene, e forse nemmeno contiene, la minaccia atomica di Teheran.

 

Così l’interventismo umanitario e la difesa dei diritti umani sono stati sacrificati alla corte del realismo (con quella giustificazione madre che è la guerra in Iraq, come se, adesso che nessuno fa niente, in Iraq si stesse alla grande e quando c’erano gli occupanti americani invece un disastro), con la non piccola conseguenza che l’impunità è ai suoi massimi, di stabilità invece se ne vede pochissima.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi