Una fase della partita tra Zimbawe e West India ai Mondiali di cricket in Australia (foto LaPresse)

La democrazia è sopravvalutata, anche nello sport?

Giulia Pompili

Breve indagine sul cricket, il monopolio indiano ed esempi di insuccessi in Giappone e Corea del sud. Un declino inarrestabile sta infatti investendo questo sport e il motivo è una interessante e ficcante metafora geopolitica.

Il cricket: yawn, direte voi. Ma tranquilli, non siete soli. Un declino inarrestabile sta infatti investendo il mondo del cricket e il motivo è una interessante e ficcante metafora geopolitica. Anzitutto vale la pena ricordare che il cricket – si gioca in undici con mazza, palla e bastone – è “il nonno di tutti gli sport”. Di antiche origini inglesi, esportato poi in India, Bangladesh, Pakistan e Sri Lanka, è proprio in quella zona dell’Asia che si è trasformato da sport di èlite a nobile attività di massa (continua a leggere qui). Il fatto è che il cricket, spiega oggi il New York Times, pur avendo una storia simile a quella del rugby, non sfonda. Quest’anno i campionati del mondo – che si stanno svolgendo in questi giorni – sono ospitati da Australia e Nuova Zelanda, due paesi con una nazionale piuttosto forte. C’è la prima partecipazione della nazionale dell’Afghanistan, certo, ma le squadre in competizione sono soltanto 14, proprio come l’edizione del 2011. Campione in carica è l’India. Ed è l’India, appunto, il problema. Il format delle competizioni “sembra essere fatto apposta per la televisione indiana”, scrive Tim Wigmore sul New York Times: le maggiori nazionali, quelle che assicurano eventi ad “alta tensione”, giocheranno ciascuna almeno sei partite. Wigmore cita il caso del 2007, quando in un girone vennero eliminate sia la nazionale indiana sia quella pachistana, una specie di disastro commerciale: nessun match tra le due regine del cricket,  gli sponsor – che avrebbero pagato per degli spazi pubblicitari in almeno nove partite dell’India – sono scappati.

 

Il pratica più del 70-80 per cento delle entrate in una Coppa del mondo di cricket, tra sponsor, scommesse e diritti televisivi (due miliardi di dollari di volume d’affari) è generato dagli indiani. E dunque l’equilibrio è completamente sbilanciato. Che fare? Chiamiamo gli americani! è l’idea del capo della International Cricket Council David Richardson. Globalizzare lo sport, e quindi democratizzarlo. E poi certo, bisogna investire di più, perché come fa un giocatore pachistano a pagarsi il viaggio in America? (da rivedere, se non l’avete ancora fatto, "Million Dollar Arm", film di Craig Gillespie su una sceneggiatura di Thomas McCarthy, basata su una storia vera). Ma tutta questa democratizzazione, tutta questa globalizzazione, farà davvero bene allo sport?  La democrazia è ancora così necessaria?

 

Sulla globalizzazione degli sport sarebbe il caso di chiedere al Giappone, per esempio, che ha appena perso il primato sul sumo (L’invasione mongola, titola il Japan Times). Oppure alla Corea del sud, che ha dismesso molte, moltissime delle palestre tradizionali dedicate allo studio delle arti marziali per far posto a campi da golf pressoché ovunque (non di rado sui tetti dei palazzi, oppure la versione da interno nei centri commerciali).

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.