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Il mestiere dell'editore

Antonio Gurrado

Primo firmatario, Gabriele d’Annunzio; poi Luigi Capuana, Giosue Carducci, Carlo Dossi, Edoardo Scarfoglio e Matilde Serao sottoscrissero nel 1884 un appello sulla stampa onde dissociarsi dall’attività del loro editore Angelo Sommaruga, reo di avere pubblicato “Il libro delle vergini” del Vate mettendo in copertina tre giovani nude.

Primo firmatario, Gabriele d’Annunzio; poi Luigi Capuana, Giosue Carducci, Carlo Dossi, Edoardo Scarfoglio e Matilde Serao sottoscrissero nel 1884 un appello sulla stampa onde dissociarsi dall’attività del loro editore Angelo Sommaruga, reo di avere pubblicato “Il libro delle vergini” del Vate mettendo in copertina tre giovani nude (benché strategicamente infrascate) allo scopo di vendere più copie. D’Annunzio, tenuto all’oscuro fino a pubblicazione avvenuta, volle schierarsi contro la scelta bassamente commerciale – era lo stesso d’Annunzio che sulle riviste scriveva sciarade volte a pubblicizzare amari o calzolerie – e convinse i colleghi a dichiarare di non voler avere più nulla a che spartire con l’editore; Sommaruga però difese alacremente “la copertina di soverchio ardita di quelle sue vergini così poco vergini”. Era un editore tanto audace quanto illetterato, che si vantava di non leggere mai i libri che pubblicava per rispetto agli autori, dei quali si fidava ciecamente, ritenendo che leggendoli avrebbe sminuito il loro lavoro intellettuale così come loro avrebbero sminuito il suo mettendo bocca nel lavoro editoriale. Sua fermissima convinzione era la separazione delle carriere: l’autore legge e scrive, “io compero e pago”.

 

Tanto racconta Valentino Bompiani ne “Il mestiere dell’editore”, aureo libello pubblicato da Longanesi nel 1988 (un capitolo è stato recentemente ripubblicato per le edizioni numerate di lusso Henry Beyle: 32 pagine, 22 euro). Lo stesso Bompiani individuava la peculiarità del mestiere dell’editore nel “non far cultura portandola agli ignoranti ma portando gli ignoranti alla cultura”; e di fronte al senso di soffocamento che già trent’anni fa coglieva chi entrava in libreria e veniva sommerso dalla mercanzia sugli scaffali senza distinzione di qualità, spiegava serafico che “mansione dell’editore è di fermare la parola in modo che sia pronta e accessibile a tutti. Vivrà e sopravvivrà la parola più valida e la scelta non è questione di soldi e di potenza”.

 

Che scrivere e pubblicare siano due mestieri diversi lo dimostra anche la scelta drastica operata a gennaio da Iperborea. Per le uscite del 2015 la casa indipendente specializzata in letteratura scandinava ha deciso di mantenere lo stesso formato dei volumi cambiando tutto il resto, a cominciare da carattere e interlinea, più leggibili e compatti, che permettono di diminuire il numero delle pagine e quindi di aumentare la qualità della carta che, essendo più leggera, consente di aprire il libro senza squinternarlo trasformando di fatto il modo in cui lo si prende il mano e lo si legge. Cambia anche la fattura della sovraccoperta ruvida (in pregiatissima Fedrigoni Imitlin tela) nonché la grafica di copertina, col paradosso che pur essendo cambiato perfino il logo dell’editore la sua anima resta fissa: così che da lontano, pur apparendo un libro completamente diverso, si capisca che è un Iperborea. Tutto questo indipendentemente dai contenuti.

 

[**Video_box_2**]Sull’anima degli editori si interroga anche Nicola Carraro, che col cugino Alberto Rizzoli ha appena scritto “Rizzoli: la vera storia di una grande famiglia italiana”, domandandosi in tempi non sospetti: “La Rizzoli esiste ancora?”. Il nipote del fondatore si risponde che, fatto salvo il Corriere, i libri “vanno più che discretamente” e Oggi “tiene botta” mentre la mitica cartiera di Marzabotto è chiusa, Novella e Sorrisi sono stati venduti, i rotocalchi femminili storici sono cessati, la casa cinematografica che aveva prodotto “La dolce vita” è stata ceduta e la libreria sulla Fifth Avenue di New York “è sparita e al suo posto hanno costruito un grattacielo”. Carraro individua il punto di svolta nel lontano momento in cui “editori puri” – le famiglie Mondadori, Rusconi, Fabbri e naturalmente Rizzoli – hanno lasciato a quegli imprenditori multiformi che secondo il fondatore Angelo non avrebbero mai colto i gusti letterari di casalinghe e gelatai. I maligni noteranno che “Rizzoli” è pubblicato da Mondadori.

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