In morte della trattativa stato mafia

Massimo Bordin

“Tenga conto che io ho una età che ormai si avvicina più ai cento che agli ottanta”. La premessa di Arnaldo Forlani a una sua risposta al pm Nino Di Matteo si può considerare una piccola civetteria. L’antico leader Dc compirà novant’anni a dicembre, dunque si è addirittura aumentato gli anni.

Roma. “Tenga conto che io ho una età che ormai si avvicina più ai cento che agli ottanta”. La premessa di Arnaldo Forlani a una sua risposta al pm Nino Di Matteo si può considerare una piccola civetteria. L’antico leader Dc compirà novant’anni a dicembre, dunque si è addirittura aumentato gli anni, anzi i mesi, facendo risaltare ancora di più quanto memoria e logica nell’argomentare non si siano affievolite. Ha retto con disinvoltura alle domande per un paio d’ore e la sua testimonianza ha costituito il clou di una nuova puntata del processo sulla trattativa stato-mafia. La Corte di assise palermitana si è di nuovo trasferita a Roma per tre giorni. Questa volta però niente stucchi dorati del Quirinale ma la tetra e assai periferica aula bunker del carcere di Rebibbia.

 

La lista testi era comunque di tutto rispetto, dall’ex presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, novantaquattrenne, citato nella sua qualità di presidente del Consiglio dal 1993 al 1994, al presidente emerito della Corte costituzionale Giovanni Conso, 92 anni  citato perché ministro della Giustizia nello stesso periodo. Come era prevedibile, per entrambi sono stati presentati certificati medici che attestavano l’impossibilità della loro presenza in aula. Delle non buone condizioni di salute del presidente Ciampi già si sapeva. Quanto a Conso, un recente intervento sconsigliava qualsiasi suo spostamento. E poi, alla fin fine, “senectus ipsa morbus” è un principio medico che mantiene una sua validità anche in tempi in cui l’aspettativa di vita si è allungata. Ma il “processo alla storia” ha le sue esigenze e rende inevitabili situazioni come quella verificatasi la scorsa settimana nell’aula di Rebibbia. A Palermo è ancora viva la memoria del processo per il rapimento De Mauro, una vicenda del 1970 giunta a dibattimento nel 2006 e arrivato a sentenza di primo grado più di cinque anni dopo. Sentenza di assoluzione per l’unico imputato, Totò Riina, confermata in appello. In quel processo sfilarono di fronte alla Corte di assise, e al pubblico ministero Antonio Ingroia, numerosi testimoni che ovviamente all’epoca dei fatti erano già in età matura. Testimoni superstiti, si potrebbero definire. Due di loro, l’ingegnere Mimì La Cavera, figura di spicco della politica economica siciliana degli anni 50, e l’ex senatore democristiano Graziano Verzotto, dirigente siciliano dell’Eni ai tempi di Enrico Mattei e contemporaneamente segretario regionale della Dc, fecero in tempo a rendere la loro testimonianza ma non riuscirono ad arrivare ad ascoltare la sentenza. Una vicenda triste, al contrario di quello che accadde quando fu sentito come teste Giorgio Ruffolo. L’ex dirigente dell’Eni, che fu anche ministro, aveva già superato gli 80 anni e avanzò verso il banco dei testimoni a fatica, appoggiandosi a un bastone. Al termine della sua deposizione, in cui aveva esibito il consueto linguaggio ricco di immagini suggestive e non privo di ironia, il presidente si sentì in dovere di ringraziarlo, “anche per essersi spostato a Palermo pur nelle sue condizioni”, disse, appena prima di accorgersi di aver fatto un errore. “Guardi che io fino a ieri pomeriggio stavo benissimo”, rispose Ruffolo. “Uscendo dall’albergo sono caduto per una buca sul marciapiede. Sono io che la ringrazio per avermi sentito subito così da consentirmi di partire oggi stesso e farmi vedere da medici di cui possa fidarmi”. A quel punto al presidente parve saggio evitare una difesa d’ufficio della sanità locale e limitarsi ad auguri di buon viaggio e pronta guarigione. Insomma, i processi alla storia, con i loro testimoni per forza di cose avanti negli anni, non offrono solo spunti malinconici. Dunque i protagonisti di stagioni passate della vita politica possono per tanti versi essere elemento di richiamo mediatico per un processo che si vuole proporre come uno squarcio al sipario che copre una indicibile ragion di stato e perciò pretende adeguata attenzione. C’è però una controindicazione, un rischio di cui tenere conto. A quell’età un testimone del genere, giunto alla fine della carriera politica dopo averne viste, e talvolta passate, tante è ormai, se non appagato, completamente disincantato. Tende a non temere l’inquisitore, che, del resto, che potrebbe mai fargli? E così può capitare ai pm di sentirsi apostrofare a metà dell’interrogatorio con una frase come “Ma almeno fatemi delle domande sensate!” pronunciata dall’ottantasettenne Ciriaco De Mita quando fu sentito in aula, a settembre dell’anno scorso. Non tutti però sono come lo sprezzante leader irpino e c’è di peggio. In un altro processo “storico”, quello contro Giulio Andreotti, l’allora sostituto procuratore Roberto Scarpinato curò l’interrogatorio di un teste d’eccezione, il mitico avvocato Vito Guarrasi, “l’avvocato dei misteri”, l’uomo con la fama di artefice occulto di ogni cosa rilevante avvenuta in Sicilia nella seconda metà del secolo scorso. In Sicilia e dunque, per ogni siciliano, con decisivi riflessi in Italia e nel resto del mondo. Guarrasi, da “gran siciliano” era uomo alieno da qualsiasi ribalta, naturalmente parco nelle interviste che nella sua vita si contano sulle dita di una mano, misuratissimo nelle parole. La citazione come teste si presentava come occasione davvero storica, anche perché fu l’ultimo dei rarissimi interventi pubblici dell’avvocato che morì alcuni mesi dopo, a 85 anni nell’ultimo anno del Ventesimo secolo. Non ci fu verso, per più di tre ore Guarrasi imperturbabile rispose senza dire nulla. Scarpinato decise allora di tentare una strada traversa. “Conosce Enrico Cuccia?” “E certo. E’ mio cugino.” “Ah. Bene. Vi frequentavate?”. “Non tanto. Eravamo molto presi entrambi dal lavoro. Veniva lui quasi ogni anno a Palermo”. “E dove vi vedevate?”. “Al cimitero” “E di cosa parlavate?” “Della tomba di famiglia, dei nostri morti”. Fu tutto. La sprezzatura sublimata nello humor nero diventa molto più umiliante di quella declamata. Il testimone pluriottantenne  che ha visto tutto è un bersaglio difficile anche per il pubblico ministero che pure per la sua ricerca della storia “vera” dispone di mezzi che lo storico non può usare, come ha baldanzosamente fatto notare il procuratore aggiunto Vittorio Teresi. L’impresa diventa poi impossibile se non si padroneggia la materia, il suo gergo, i suoi riti, le sue scansioni temporali. E qui si può tornare finalmente al processo sulla “trattativa” e ai rischi che corre la pubblica accusa di fronte alle testimonianze di vecchi leader democristiani come Arnaldo Forlani. Nel suo caso l’obiettivo che la procura cercava di raggiungere, per metterlo agli atti nero su bianco,  per “incartarlo” – come dicono gli avvocati napoletani – è un obiettivo sfuggente, viscido come un’anguilla. Incartarlo è difficile. Alla procura serve dimostrare che l’avvicendamento al Viminale fra Vincenzo Scotti e Nicola Mancino sia stato un passaggio premeditato e funzionale ad avere come ministro dell’Interno un politico più malleabile in funzione di una trattativa che prevedeva concessioni a Cosa nostra. Naturalmente nelle cronache politiche dell’epoca nulla supporta una interpretazione del genere. Il governo in cui entra Mancino, nella primavera 1992, nasce dopo le elezioni anticipate che determinano l’ultima legislatura della Prima Repubblica e l’elezione di Oscar Luigi Scalfaro al Quirinale. Una fase politica fra le più complicate.  Qui sta una differenza fondamentale fra lo storico di professione, che analizza un fatto inserendolo in un contesto che lo relativizza, e un pubblico ministero che guarda al fatto in sé e ai suoi protagonisti veri o presunti, mantenendo sfocato il contesto che non entra nei cosiddetti fatti di causa.

 

[**Video_box_2**]Giusto che sia così ma in un processo “storico” non può funzionare. Nel processo palermitano c’è un problema in più. Il contesto è talmente sfocato da essere falsato per un pregiudizio dovuto a una singolare miopia. Le vicende vicine sono ingigantite, gli eventi al di là dello Stretto di Messina ridotti alla sottomissione o all’irrilevanza. Così l’omicidio Lima diventa per i pm un perno, non solo del processo, ma di altri eventi successivi pure non irrilevanti e sicuramente di relazione con esso. Per esempio Tangentopoli e la crisi dei partiti. Pare impensabile, e dunque sospetto, che i politici a Roma non avessero colto la centralità di quell’omicidio e si distraessero per gli avvisi che fioccavano, i partiti che si sfasciavano e la crisi finanziaria che avanzava. Nelle domande che il pm Di Matteo ha posto a Forlani l’eco di questa interpretazione mafiocentrica  si avvertiva, anche se in misura minore rispetto alle domande che lo stesso pm aveva posto a De Mita, il quale con le sue risposte qualche risultato l’ha dunque ottenuto. E’ rimasta però quella siderale distanza fra il modo di intendere la politica e i suoi riti. La formazione di un governo è qualcosa che finisce per assorbire completamente un segretario di partito anche oggi. Figuriamoci allora e nella Dc di allora. Inutile chiedere a Forlani quanti contrasti stesse causando in Parlamento l’approvazione del decreto antimafia che comprendeva il 41 bis. Per il segretario, politico pragmatico per eccellenza, il dibattito sui giornali fra garantisti ed emergenzialisti aveva un interesse pari allo zero. L’importante era che non ci fossero spaccature nella maggioranza e questo in effetti non avvenne. Per Di Matteo quello è “il famoso decreto con importanti direttive antimafia”, per Forlani uno dei tanti decreti da convertire in legge senza danni politici. Quanto all’avvicendamento al Viminale Forlani ha ripetuto quello che ha detto in aula De Mita. Il problema di Scotti fu la sua contrarietà ad abbandonare la carica di deputato per restare ministro. Perse l’attimo e un complicato scambio fra demitiani e dorotei spostò Gava alla presidenza del gruppo Dc del Senato e Mancino, per risarcimento della presidenza persa, al Viminale, resosi libero per il rifiuto di Scotti di lasciare Montecitorio. Tanto “il famoso decreto” avrebbe comunque seguito il suo corso. Di Matteo non si è convinto e il botta e risposta ha toccato punte surreali.  Perché mai quella norma di incompatibilità, mai applicata in precedenza e nemmeno in seguito? Forlani non si è nemmeno dilungato a rispondere, spiegando solo che in quel momento politico era necessario prendere qualche decisione innovativa e che dopo di lui il partito cambiò nome e si avviò a diventare un’altra cosa. Certo l’iniziativa non fu presa su misura per Scotti. Piuttosto per dare un contentino a Mario Segni e fare una qualche riforma che evocasse il sistema francese senza adottarlo veramente. Ma questo, forse saggiamente, Forlani ha evitato di dirlo al sospettoso pm, che dal canto suo è andato all’attacco su un altro tema, i titoli del subentrante. Perché Mancino, che non era mai stato ministro, era stato preferito a Scotti che lo era già stato più volte? Argomentazione singolare che presuppone l’inamovibilità dalla carica di ministro. Forlani ha risposto in modo felpato e con più parole ma questo ha fatto notare. Infine l’aspetto più importante. Chi ha deciso? Una struttura che ogni tanto si riuniva intorno al segretario, una specie di coordinamento fra correnti, l’ufficio politico. C’erano il presidente, De Mita, i capigruppo, Gava e Gerardo Bianco, e “talvolta – ha detto Forlani – anche i due vicesegretari, Silvio Lega e Sergio Mattarella, che, come loro sanno, è da poco stato eletto presidente della Repubblica”. A quel punto un brivido di eccitazione ha percorso i presenti. Si può ricominciare. E per di più stavolta l’inquilino del Quirinale è un siciliano, dunque ben interno al micro contesto che i pm tengono in gran conto. Le testimonianze romane hanno prodotto un risultato, non certo processuale ma come al solito mediatico. Mezze pagine sui quotidiani sono assicurate non foss’altro che per valutare l’eventualità di un fatto assolutamente eccezionale. Un processo nel quale vengono sentiti come testimoni due presidenti della Repubblica. La difesa di Mancino ha già il neo presidente nella lista testi. Lo spettacolo continua e volendo la pubblica accusa potrebbe far notare come il presidente all’epoca rappresentasse in segreteria proprio la corrente dell’imputato Mancino. Ma se il capo dello stato confermasse, sotto giuramento, la versione di De Mita, Gargani e Forlani, e non c’è motivo di pensare che farebbe altrimenti visto che non li ha mai smentiti, per la pubblica accusa sarebbe  un colpo molto duro, forse definitivo. E forse questo indurrà la procura a tenere un atteggiamento diverso rispetto a quello adottato per la testimonianza di Giorgio Napolitano.