Calogero Mannino (foto LaPresse)

Così frana il processo Stato-mafia

Sergio Soave
L'assoluzione "per non avere commesso il fatto" dell'ex ministro Mannino svuota uno dei principali punti di appoggio dell’accusa e tutto il circuito mediatico giudiziario attorno al Tribunale di Palermo. Pignatone a Roma non commetta lo stesso errore su Mafia Capitale.

Nella teoria della trattativa Stato-mafia costruita dalla procura palermitana, Calogero Mannino rivestiva un ruolo essenziale. Era accusato di essere l’ispiratore dei presunti contatti tra l’Arma dei carabinieri e la cupola mafiosa. La sua assoluzione “per non aver commesso il fatto” fa franare uno dei principali punti di appoggio dell’accusa, il che probabilmente avrà l’effetto di far franare tutto l’impianto accusatorio nel procedimento principale, dal quale quello relativo a Mannino è stato stralciato per la scelta da parte dell’ex ministro del rito abbreviato. Dopo l’uscita di scena plateale di Antonio Ingroia (che ha capeggiato la lista Rivoluzione civile trascurata dagli elettori) la funzione di massimo sostenitore dell’accusa è passato a Nino Di Matteo, che ha proseguito nell’uso spregiudicato del circuito mediatico-giudiziario per creare un clima di opinione sfavorevole agli imputati ed esaltare il protagonismo politico della procura.

 

Ora la sentenza di assoluzione con formula piena di Mannino getta un’ombra assai pesante su tutta l’operazione Stato-mafia che è arrivata, per la gestione spregiudicata delle intercettazioni da parte della Procura, a lambire il Quirinale, che ha dovuto chiedere alla Consulta di ordinare la distruzione di intercettazioni ininfluenti che venivano usate per alimentare il polverone. Alla fine si dovrà mettere a bilancio lo spreco di risorse sottratte a effettive azioni di contrasto alla criminalità organizzata, senza contare il discredito anche internazionale che è stato disseminato senza ragione sulle massime istituzioni della Repubblica. D’altra parte neppure la sentenza è bastata a tacitare gli ultras dell’antimafia professionale, come testimonia la manifestazione inscenata davanti al tribunale palermitano dal sedicente “popolo delle agende rosse” in cui si insisteva ad attribuire a Mannino la responsabilità della presunta trattativa.

 

[**Video_box_2**]Questa tendenza a costruire attorno a un procedimento giudiziario una sorta di agitazione permanente a sostegno dell’accusa, con largo impiego della manipolazione e della diffusione selettiva di intercettazioni che alimenta il circuito mediatico giudiziario rappresenta uno degli aspetti più impressionanti della politicizzazione di alcune procure. Se in Sicilia questa deriva appare oramai inarrestabile, persino di fronte a riscontri processuali che contraddicono apertamente gli assunti dell’accusa, questo stesso fenomeno può dare metastasi anche in altre situazioni processuali e in altri territori. Viene naturale interrogarsi sulla possibilità che anche il processo su Mafia Capitale che si apre in questi giorni possa incanalarsi in una direzione altrettanto speciosa. Per la verità, finora, si può registrare una sobrietà della magistratura romana incomparabile con la verbosità tribunizia di quella di Palermo e questo va sottolineato come un comportamento lodevole in una situazione caratterizzata da una sovraesposizione mediatica che potrebbe indurre in tentazione anche magistrati non propensi alla politicizzazione delle loro funzioni giurisdizionali. C’è da sperare che l’effetto controproducente ottenuto da Ingroia e Di Matteo li aiuti a resistere alla tentazione.