Soldati italiani a Kabul (foto LaPresse)

Morire per Tripoli?

Mario Sechi

Non si può restare a guardare. La fantasia dei terroristi è molto grande, più di quanto si possa immaginare. Tra le coste della Libia e la Sicilia ci sono soltanto 200 miglia marine. Lo Stato islamico non ha – da quanto ne sappiamo – le capacità balistiche per costituire oggi una minaccia aerea per le nostre coste, ma via mare a questo punto tutto è possibile - di Mario Sechi

Morire per Tripoli? No, gli italiani sono unfit per la guerra. E’ vero quello che scrivono Cerasa, Ferrara, Crippa? E poi, italiani chi? In Afghanistan e Iraq abbiamo combattuto. Sappiamo sparare e uccidere il nemico. Solo che queste azioni non interessano le anime belle, gli intellettuali da premio, il senso comune televisionaro e, naturalmente, i governi. Bianchi, rossi, neri, blu, viola, di destra, di sinistra, di sopra, di sotto e di sottosopra, non importa il colore o la posizione: tutti “ripudiano la guerra” e se c’è da andare a morire, tranquilli, è una missione di pace sotto la bandiera dell’Onu. Ma ora armatevi e partite ché abbiamo preso accordi con gli alleati. Mai che qualcuno ci sia venuto a spiegare nel dettaglio quale fosse l’interesse nazionale. E noi siamo andati, ubbidienti, finanziati dal Parlamento, previo ampio e ipocrita dibattito. Siamo partiti, i nostri soldati hanno messo le tende anche in luoghi di cui, francamente, potevamo fare a meno. Come se il prestigio internazionale derivasse dal numero delle missioni e non, invece, dalle battaglie chiave vinte dove si fa la guerra, cioè la continuazione della politica con altri mezzi, per dirla con Carl von Clausewitz. O anche lui è stato rottamato e sostituito da qualche pensatore del conflitto new age?

 

Morire per Tripoli? Prendiamo per buone le parole di un ministro come Paolo Gentiloni: “Il tempo sta per finire”. E penso, come Ferrara, che questa sia #lavoltachenonsischerza. Lenin si sarebbe chiesto: che fare? Di certo non si può restare a guardare. La fantasia dei terroristi è molto grande, più di quanto si possa immaginare. Tra le coste della Libia e la Sicilia ci sono soltanto 200 miglia marine, circa 370 chilometri. Lo Stato islamico non ha – da quanto ne sappiamo – le capacità balistiche per costituire oggi una minaccia aerea per le nostre coste, ma via mare a questo punto tutto è possibile. Pensate a cosa accade in questi giorni nelle coste italiane e allo scenario che si sta aprendo in Libia. Un memento. Al Qaeda squarciò e quasi affondò il cacciatorpediniere USS Cole nel porto di Aden. E’ il 12 ottobre del 2000, la nave da guerra è all’ancora, una barca da pesca si avvicina, è carica di C4. L’esplosione fa 17 morti e 39 feriti. La USS Cole non affonda solo perché è stata costruita nel 1996 con nuove soluzioni per resistere agli attacchi. E se lo Stato islamico dovesse usare la stessa strategia con le nostre navi militari o con altri? E se camuffasse i suoi guerriglieri da profughi per tentare poi un assalto in grande stile a un mezzo navale e entrare in un porto italiano? La fantasia degli assassini è molto grande. Fare scenari aiuta a capire fin dove si può arrivare. Non aver immaginato l’uso degli aerei di linea come missili balistici da sparare a Manhattan, agli americani l’11 settembre del 2001 è costato il più grave attacco dopo Pearl Harbour. I cattivi fanno i cattivi.

 

E con quel tipo di cattivo non c’è diplomazia. Caricate. Puntate. Fuoco! Anche gli italiani sparano, ma non si dice. Gli italiani sanno combattere, ma non si dice. Gli italiani fanno la guerra, ma non si dice. Però poi c’è chi spara, chi combatte, chi fa la guerra. E c’è un pezzo importante di Italia – la maggioranza, statene certi - che quei soldati li sostiene non con un’operazione simpatia in tv, ma nel silenzio, stringendo i pugni, pregando, piangendo. Italiani. Io li ho visti. Fateci caso, lasciate perdere il folclore, osservate bene la reazione di fronte a un soldato in divisa mimetica che con il suo zaino sale sul treno per tornare a casa, o fa la fila in aeroporto. Lo sguardo sincero tradisce un pensiero: “Quest’uomo sta facendo una cosa importante… ha coraggio… e io non ce l’ho… o vorrei averlo…”. E un pensiero che comincia a trapanare la mente, perché si sposa con la parola dovere, identità, patria, ideale. E tutto questo significa sacrificio, responsabilità, disciplina, onore. L’educazione di un soldato è un patrimonio che solo una classe dirigente inetta come la nostra non comprende. I Marines hanno il meglio della gioventù americana, West Point è una fabbrica di leader del futuro, per entrarvi bisogna avere una classifica stellare ai test di ammissione e capacità fisiche e psicologiche non comuni. Anche le nostre accademie militari sono piene di talento, ben coperto dall’apparato burocratico della Difesa, ma c’è. I corpi speciali sono una fucina di personaggi da romanzo che “prestiamo” spesso ad altre nazioni. Cover operations, tanti rischi, nessun ringraziamento. Ah, ecco arrivare l’obiezione degli idioti in servizio permanente effettivo: e mandiamo i migliori a morire? Avviso ai benpensanti: la guerra non è per i mediocri, quelli che vivono scappando. Unfit chi? Non i nostri soldati.

 

Avete mai visto la Brigata Sassari marciare? Avete mai parlato con loro? Uomini e donne come fratelli. Dimonios. Vivono con un solo scopo: proteggere il compagno che hanno a fianco. Nei nostri giorni lo hanno fatto in Albania, in Bosnia, in Kosovo, in Macedonia, in Iraq, in Afghanistan. Mercenari, pazzi, terroristi. Colpi di Kalashnikov, mortaio, bombe, attentati, assalti. Hanno visto di tutto. E risposto al fuoco. E’ stato versato del sangue. Ne hanno salvato tanto. Non occorre tornare indietro alla prima guerra mondiale per trovare l’eroismo, cari amici. Non è necessario – ma posso assicurare che è utile – leggere Un anno sull’altopiano di Emilio Lussu per scoprire il sacrificio e l’amore per la patria, l’orrore del conflitto e gli errori del comando: “L'assalto! Dove si andava? Si abbandonavano i ripari e si usciva. Dove? Le mitragliatrici, tutte, sdraiate sul ventre imbottito di cartucce, ci aspettavano. Chi non ha conosciuto quegli istanti, non ha conosciuto la guerra”.

 

Non c’è bisogno di navigare fino a Cefalonia per scoprire l’ignobile tradimento dei tedeschi (“Dove ci portano? Dove ci portano?"), la disperata resistenza di un manipolo di soldati destinati alla morte. E non è necessario percorrere il deserto fino ad Al Alamein per aprire l’archivio impolverato di una battaglia dove c’era il coraggio, c’era l’onore, ma mancavano le armi. Fu quello che consentì a Montgomery di vincere e a Winston Churchill di affermare: “Si può quasi dire: Prima di Alamein non avevamo mai vinto, dopo Alamein non perdemmo più”. Agli italiani mancavano le armi.

 

Sì, sono flashback di un esercito quasi sempre sconfitto, lacerato, straccione, con le pulci, le scarpe rotte, i materiali a pezzi, i comandi in fuga, la politica in disarmo e riarmo verso un altro “ideale” da far inseguire solo al popolo. E’ l’autobiografia ultrapop di una nazione che finisce in burla tra le urla di dolore e le macerie. Ma io non conosco altra storia che questa. E’ la nostra ed è ingenuo cercarne un’altra o – peggio – scriverne una che non esiste, come spesso è stato fatto nel passato e perfino nel presente. In questo scorrere di capitoli che si sfarinano, emerge il carattere degli italiani, un popolo mai fatto e disfatto del tutto, qui sono nascoste le sue energie e qualità, la sua imprevedibile forza e disarmante dissolutezza. E’ un quaderno pieno di sconfitte, lo so bene. Ma in quella sconfitta non c’è il rifiuto di combattere. Lo smidollato da salotto è venuto dopo, messaggio subliminale del politicamente corretto, testo della sinistra smack e ciak, controtesto della destra Dio, Patria e tengo famiglia. Chi è unfit? C’è molta viltà tra le classi dirigenti. E ignavia nella borghesia. E’ la cattiva coscienza di una nazione che c’è a sprazzi e, in ogni caso, non voleva morire tutta per Roma, figurarsi per Tripoli. Ma perfino nel Monicelli de La Grande Guerra, le immagini negative, il corrosivo ritratto della viltà, diventano improvvisamente l’eroico riscatto di una coppia che la guerra la scopriva davvero negli ultimi istanti di vita. Quando nella scena finale il romano Oreste Jacovacci (Alberto Sordi) e il milanese Giovanni Busacca (Vittorio Gassmann) affrontano il plotone d’esecuzione, i loro volti diventano una scarnificazione della paura. L’ufficiale austriaco che offende con una battuta Busacca (“Fegato dicono. Quelli conoscono soltanto il fegato alla veneziana con cipolla. E presto mangeremo anche noi quello”) accende l’orgoglio del soldato Busacca e si becca in faccia la risposta di chi il fegato l’ha trovato in quel momento, l’ultimo bagliore prima del The End: “…visto che parli così… mi te disi proprio un bel nient! Hai capito? Faccia de merda!”. Bum! Viene fatto secco dal plotone d’esecuzione, mentre Jacovacci piange, si dispera e urla: “Io non so nienteeeee! Io sono un vigliacco, lo sanno tutti”. Bum!  Muoiono da eroi improbabili, Busacca e Jacovacci. Muoiono da Italiani. Sono veri, non hanno niente di epico, non sono un prodotto esportabile al Pentagono. E’ la storia e si fonde con altre storie che ci insegnano molti di quel che ancora oggi, possiamo descrivere con i versi di Eugenio Montale: “Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,/sì qualche storta sillaba e secca come un ramo./Codesto solo oggi possiamo dirti,/ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”. Procediamo per negazione. E non è dicendo “no” alla guerra che la evitiamo. I cattivi fanno i cattivi.

 

Morire per Tripoli? Significa avere coscienza del male. Il governo ce l’ha? Forse. Di sicuro è impegnato nel tiki taka diplomatico delle Nazioni Unite che confonde meglio le idee. Sarebbe interessante vedere il governo Renzi andare oltre la retorica dello scoutismo e del coltellino svizzero, dire cari italiani, sono tempi duri, il Novecento non è mai finito, un gruppo di tagliateste ha deciso di seminare il caos, pensano di rifare il Califfato, sono il male nella sua più terribile rappresentazione, bruciano uomini e donne, decapitano il primo che passa, violentano, torturano. Sono lontani, per ora, ma noi siamo in mezzo a questo caos e faremo di tutto per non farci cogliere impreparati. Abbiamo soldati, proiettili, coraggio. Sarebbe bello, mi ricorda tanto il film di Spike Lee, la Venticinquesima ora, con il viaggio finale della Jeep che scorre nel deserto. Sarebbe bello. Ma non lo è perché c’è difficoltà e timore perfino a definirlo il nemico, legarlo a una deviazione dell’Islam che non si può tacere. Chiamare le cose con il loro nome, questo è essere consapevoli del male, (ri)conoscere il nemico. Come scriveva Joseph Conrad in Lord Jim: “Si giudica un uomo dai nemici, non meno che dagli amici”. Morire per Tripoli?

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