Un militare dell'esercito libico ricarica la sua arma durante gli scontri contro gli islamisti di Ansar al Sharia a Bengasi (foto LaPresse)

Tutti schierati con la soluzione politica in Libia (che non esclude i fucili)

Daniele Raineri

Ieri una parte importante della comunità internazionale si è schierata con la cosiddetta soluzione politica alla guerra in Libia, che riassunta può suonare così: prima le due parti impegnate nel conflitto devono cessare di combattersi, devono trovare un accordo di compromesso; se così sarà, allora riceveranno dall’esterno ogni tipo di aiuto.

Roma. Ieri una parte importante della comunità internazionale si è schierata con la cosiddetta soluzione politica alla guerra in Libia, che riassunta può suonare così: prima le due parti impegnate nel conflitto devono cessare di combattersi, devono trovare un accordo di compromesso, spartirsi i posti di responsabilità in un governo di unità nazionale e dimostrare solidità istituzionale, pur minima; se così sarà, allora riceveranno dall’esterno ogni tipo di aiuto, finanziario e anche militare, per passare con efficacia ritrovata alla fase due: la guerra contro lo Stato islamico che sta attecchendo tra Tripoli e Bengasi (anche se i media in generale esagerano la sua presenza e così creano basi più ampie per il reclutamento).

 

Per “due parti in conflitto” non s’intende lo Stato islamico contro il resto della Libia, ma i due governi libici, uno con sede a Tripoli e l’altro a Tobruk, che dall’anno scorso si contendono il controllo del paese e sono aiutati da sponsor esteri. Per aiuto militare non è ancora chiaro cosa s’intende: potrebbe essere la cessazione dell’embargo sulla vendita di armi alla Libia, oppure un intervento armato internazionale – ma ieri l’Egitto ha detto che nella bozza di risoluzione presentata alle Nazioni Unite la richiesta di un mandato di intervento militare non era più menzionata, non c’è più perché i paesi europei si sono tirati indietro, come ha spiegato una fonte all’agenzia Afp.

 

Ieri mattina in un’aula del Parlamento deserta il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, ha presentato l’informativa urgente del governo sulla Libia e ha detto che l’unica soluzione è quella politica – e quest’affermazione è stata letta come un nuovo dietrofront rispetto alle dichiarazioni precedenti sul possibile invio di cinquemila soldati italiani.

 

A ben vedere questa soluzione politica non esclude con certezza un intervento militare internazionale in futuro, e anzi ne è la fase preliminare necessaria se ce ne sarà bisogno. E’ scontato che non si parli di una “soluzione politica” nei confronti della leadership dello Stato islamico, che ha già dimostrato di essere irremovibile sulle sue posizioni. Piuttosto, si tenta di fare in Libia come è stato già fatto in Iraq: quando l’Amministrazione Obama ha deciso di aiutare le operazioni militari contro il gruppo di Abu Bakr al Baghdadi nell’agosto 2014, ha chiesto per prima cosa le dimissioni del primo ministro iracheno, Nuri al Maliki, e la sua sostituzione veloce con un altro primo ministro che sapesse conciliare meglio sunniti e sciiti (conciliare meglio: è un eufemismo).

 

La questione militare in Libia resta aperta e appesa a quello che succederà nelle prossime settimane. Due giorni fa le milizie dell’Alba della Libia (del governo di Tripoli) hanno dato l’assalto ai gruppi dello Stato islamico che occupavano aree nei paraggi di Sirte. Sono le stesse milizie che l’Egitto bombarda perché sono avversarie del suo protetto, il primo ministro Abdulla al Thinni, e del suo generale Khalifa Haftar. La situazione è dunque fluida, troppo per prendere decisioni irrevocabili.

 

[**Video_box_2**]Ieri, poche ore prima della riunione d’emergenza del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, è uscito un messaggio congiunto di Stati Uniti, Francia, Italia, Spagna, Germania e Regno Unito, che conferma pieno appoggio alla soluzione politica sotto l’egida Onu. “Il terrorismo colpisce tutti i libici, e nessuna fazione può affrontare da sola questa sfida. Il processo che sotto la guida delle Nazioni Unite porterà a un governo di unità nazionale è la speranza migliore per i libici di risolvere la minaccia terrorista e di confrontare la violenza e l’instabilità che ostacolano lo sviluppo e la transizione politica in Libia”. C’è un invito alla velocità: “L’urgenza della minaccia terroristica richiede progressi rapidi nel processo politico, che sarà basato su scadenze precise”. Ed è una cosa che ha sottolineato anche Gentiloni nell’audizione alla Camera: “Il tempo non è infinito”.

 

Nel momento in cui questo giornale va in stampa ancora non è noto l’esito della riunione alle Nazioni Unite (cominciata alle ventuno italiane, pomeriggio di New York). Si sa in anticipo che non è scontato che arrivi una risoluzione, quella in cui sperava fino a ieri il presidente egiziano, Abdel Fattah al Sisi. L’inviato speciale dell’Onu che si occupa del dossier libico, Bernardino Léon, avverte però che se le due parti in lotta non raggiungono un accordo politico allora le truppe internazionali dovranno andare in Libia lo stesso, prima a interrompere i combattimenti – come li potremmo chiamare? “Normali?” – tra i due governi e poi a dare appoggio contro lo Stato islamico.

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  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)