Massimo Giletti dichiara di procedere dalla lezione di Giovanni Minoli. In quello che mette in mezzo tra la scuola d’origine e l’approdo, c’è però anche l’aizzare lo spettatore in obbedienza all’etimo

Il minimum Massimo

Pietrangelo Buttafuoco

Parlando in punto di critica televisiva, Massimo Giletti e Alessandra Moretti sono il contrario di Al Bano e Romina. Questi mimano l’amore che non c’è, si fanno insolentire dal copione di Sanremo nel coro di “ba-cio! ba-cio!” senza mai baciarsi mentre quelli vivono una elegante storia d’amore.

Parlando in punto di critica televisiva, Massimo Giletti e Alessandra Moretti sono il contrario di Al Bano e Romina. Questi mimano l’amore che non c’è, si fanno insolentire dal copione di Sanremo nel coro di “ba-cio! ba-cio!” senza mai baciarsi mentre quelli – grazie allo chic di lei e allo charme di lui – vivono una elegante storia d’amore. Ed è un amore, il loro, che riverbera soprattutto in lui, proiettandolo, se ce ne fosse bisogno, nella serie A dell’immaginario telegenico. Giusto adesso che Giletti, con la sua “Arena”, avendo buttato per terra il libro di Mario Capanna, conclama il passaggio dalla dimensione del nazionalpopolare al populismo.

 

Parlando sempre, ma come un cane in chiesa, in punto di critica televisiva (e mettendo in conto che stasera si risolve la trionfale marcia del Festival di Sanremo), resta comunque un argomento principe. Ed è Massimo Giletti, il principe, perché il sovrapporsi del populismo sul nazionalpopolare – con la scena clou di Capanna che si sbraccia per dare il vitalizio al ’68 e con Giletti che lo spelacchia, l’ospite, nel nome degli ultimi – conferma, ben oltre il caso in sé, la capacità della Rai di anticipare l’Italia stessa.

 

Quello che succede in studio, infatti, specie nello spazio post prandiale, è sempre quello che si realizzerà in termini di costume, società e, soprattutto, politica. Ancora prima di Aldo Moro è l’azienda radio-televisiva di stato che, con Ettore Bernabei, realizza il compromesso storico amalgamando nella programmazione (e nella formazione della classe dirigente) la Democrazia cristiana e il Partito comunista; è Rai 2 a dare corpo, già nel 1975, con la rete dei socialisti, all’Italia degli anni Ottanta di Bettino Craxi; è Sandro Curzi, pur con TeleKabul, a scandagliare da Rai 3 la nascente novità leghista e pure la destra da sdoganare.
I corridoi di Viale Mazzini sono il più preciso dei barometri per la politica e se si mette in conto il dettaglio – raccontare, per esempio, il fallimento della destra in Rai – è ben chiaro che la destra, in tutte le sue forme, non riuscendo a lasciare traccia di sé in quella bestia complessa qual è la tivù di stato conferma più che un presagio, un destino: non governerà mai.
Il punto, però: Massimo Giletti. Lui stesso dichiara di procedere dalla lectio di Giovanni Minoli. In quel che Giletti mette in mezzo tra la scuola d’origine e l’approdo c’è però il fare tivù che non è più la paideia di Minoli con cui educare il pubblico ma, al contrario, quell’aizzare lo spettatore giusto in obbedienza all’etimo della trasmissione stessa. Nell’Arena, infatti, deve pur scorrere il sangue e quello spazio domenicale, nel compimento del populismo, grazie a Giletti che ce l’ha il polso del fomentatore travolge la stessa “Domenica In”. Giletti, come un soprastante che vigila sui frutti della propria privativa, appalta a sé il feudo e vi signoreggia sconfinando in forza di echi e transumanze di generi, tutti populisti. E il contenitore, infatti, un tempo architrave dell’edificio nazionalpopolare dei Corrado e dei Baudo, è solo una cornice ormai, un prima e dopo il cui focus è quell’ingranaggio fatto di libri buttati a terra e ospiti maltrattati. Un luogo, anzi, una monade, il cui padre nobile – nell’iconologia – è uno e solo uno: Gianfranco Funari.

 

Si dirà: dov’è la novità? Funari è il padre di tutti i populismi, è quello che lo ha insegnato a tutti, ma tra il cabarettista della mortazza che teorizzava il dogma – “La tivù è come la cacca, la fai e non la guardi” – e il giornalista formatosi sul marciapiede, col microfono in mano, c’è uno scatto antropologico inedito. Osservatelo. Tanto per cominciare, e finisce qui la comparazione, non è dialettale come Funari, domina una bella lingua, non offende le perifrastiche e parla un ottimo inglese. A differenza di un Fabio Fazio, un’ultima comparazione e basta, non si trincera in un desk da dove farsi dire cosa dire e poi, guardatelo, è bello. E’ uno che va per campi da tennis, si capisce: è tonico. Fa di sicuro la sua corsetta quotidiana. Flavio Cattaneo, al tempo in cui era direttore generale di Viale Mazzini, lo incontrava sempre nel percorso di jogging tra Marina di Pietrasanta e Forte dei Marmi. Si facevano ciao e Giletti, mentre Cattaneo usciva di scena, sudando le camicie dello sport corroborava la sua maestria di presenza e tecnica. Ed è tutta una potenza di maestria che lo laurea, oggi, rispetto a quello che sa fare: sintonizzare ogni sua apparizione all’unica qualità che premia nel mercato, la medietà. E’, il suo, il medias in res stesso dell’argomento, il media come mezzo, un saper parlare infine – perché di questo si tratta – alla mediocrità del pubblico poiché al conduttore, prossimo alla serie A dell’immaginario telegenico, non è richiesto di essere Al Pacino ma quantomeno Michele Santoro.

 

Più che Santoro, però, un santone. Questo è diventato Giletti. Anna Maria Tarantola, presidente della Rai, ha deciso di multarlo per la vicenda “Capanna” ma nella fascia della tivù pomeridiana questo è l’unico modo che porta alla serie A. Giletti, che è l’ammazzacaffè dell’apnea post prandiale, ha maltrattato anche Silvio Berlusconi, non è da meno di un qualunque Riccardo Iacona, titolare del marchio schiena dritta e siccome il serpente della continuità dei generi è sempre lì a mangiarsi la coda, il populismo svelato nell’eleganza taumaturgica altro non è – in punto di critica televisiva – che un esito di società e di politica.
Abiteremo l’unico luogo di destino degli italiani, l’Arena dove deve pur scorrere il sangue. I politici, ahinoi, saranno tutti come Rosario Crocetta; il Sessantotto, ahinoi, sarà solo quello di Mario Capanna; l’eccentricità, gulp!, sarà solo quella di Klaus Davi e l’opinione pubblica – ahinoi! – sarà solo quella del pubblico in studio, tutto un latrare telegenico e populista. Il minimum comune denominatore del Massimo è tutto spiegato nell’allargare la base d’ascolto aiutandosi con i fenomeni da lui evocati e convocati, un’astuzia perfino hegeliana del ribaltamento servo/padrone che va a consolare, poi, negli effetti populisti, il più cretino tra i cretini del pubblico. Succede questo: il più cretino tra i più cretini del pubblico, osservando l’annaspare dell’ospite, dell’ospite può ben dire: guarda che cretino.

 

Certo, nelle liti dei talk capita quello che succede nelle riunioni di condominio. E quando il Festival di Sanremo, nazionalpopolare per reflusso più che riflusso, vince negli ascolti non è tanto la formula a dover mobilitare i radar per capacitarsi di ciò che ci viene addosso ma l’oggetto in sé, il televisore.

 

[**Video_box_2**]Non sono i doppi sensi di Carlo Conti, non il ciclo mestruale di una tapina messa in scena, non la famiglia-villaggio, non la donna barbuta (un numero più da circo equestre che da brivido frocista) e non il comico Alessandro Siani a farsi sensori per raccontare a noi stessi che cosa diventiamo ma quell’elettrodomestico, ancora una volta, diventa catalizzatore dell’ipnosi che trasforma ognuno di noi in rabdomanti inconsapevoli. Ed è l’arma più forte, per dirla con uno che se ne intendeva di strategia della comunicazione, se poi tutti i derivati in rete – da Twitter a Facebook, al resto dei social – non fanno altro che rimpinzarsi di ciò che vampirizzano: quella televisione che, di contro, rimbalza via internet in una vertigine di tautologie. Niente è diverso, tutto è lo stesso.

 

E’ il famoso serpente della continuità dei generi dove, a parte il sottotesto agognato da tutti, in tivù – atteggiarsi a radical-chic radicandosi nel target puzzone di ’anvedi come te faccio l’audience – al pubblico, purché fermi il tasto del telecomando, nella vertigine della tautologia si concede tutto. Soprattutto il compiacersi del proprio dissenso: appunto, guarda questo cretino.
Tutto ingoia il serpente e se una lettura sofisticata dell’antropologia può anche sfogliare il capitolo dell’identità rurale d’Italia, facciamo ad esempio, da Pacciani ad Al Bano, la divinazione della politica per tramite di Rai riesce facile facile. C’è più Berlusconi, infatti, nell’abbronzatura di Carlo Conti che nell’eredità tutta di impotenza della stagione berlusconiana in Rai quando, la destra al potere, non potendo comandare, degradò il prodotto omologando la paideia dell’identità di nazione e popolo all’immagine della televisione commerciale. Controprova è nel fatto che le siderali gemelle Kessler, dopo aver fatto sognare generazioni di italiani cresciuti a “Karamazov” e “Mulino del Po”, ebbero come nemesi un’estetica grossolana da Pacchi, tette e culi. Culi da cameriera per la precisione, giammai stacco di cosce del Walhalla.

 

Tutto mastica il serpente e nella miscela di risulta, il populismo, risulta perfetto a raccontare, in modo facile facile, anche l’altra catastrofe intellettuale. Quella della sinistra. Non a caso la tivù, sia pubblica che commerciale, si è definitivamente omologata e attraverso lo stesso numero di tristissima epifania – la storia d’amore di Stefania Pezzopane, ex presidente della provincia dell’Aquila, dirigente Pd, e Simone Coccia Colaiuta, il suo cosiddetto toyboy – si può capire dove va a concludersi il destino di chi, come la Pezzopane, appunto, iscrittasi al Pci lo stesso giorno in cui moriva Enrico Berlinguer, va in giro per televisione.
Lui è un marcantonio uscito più dall’ugola dello Zappatore che da una pagina di Shakespeare, lei è quello che è – una signora d’età, bassina, dalla bellezza nascosta – e sono stati esibiti in un cortocircuito proprio torto e ritorto. Quello finto chic nel divano di Barbara d’Urso, dove i due innamorati, hanno poi siglato il loro show con tanto di twitter con la conduttrice (ecco, ancora una volta la vertigine della tautologia); e quello della scena finto trash di Daria Bignardi, dove, lo stesso copione, ha però suggerito un tremito parente stretto di un riverbero ancor più populista, nella continuità dell’unico genere: chiamare il “ba-cio! ba-cio!” e quelli, sventurati, baciarsi davvero.

 

Manco fossero in un tweet di Barbara d’Urso. Manco fossero Romina e Al Bano. Niente è diverso, tutto è lo stesso. Un passo indietro, comunque, rispetto all’elegante populismo compiuto di Massimo Giletti, il comune denominatore dell’Italia che verrà.

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  • Pietrangelo Buttafuoco
  • Nato a Catania – originario di Leonforte e di Nissoria – è di Agira. Scrive per il Foglio.