Una veduta della città di Washington

Ecco perché il capitalismo può salvare industria e ambiente

Alberto Brambilla

Il capitalismo americano è capace di rigenerarsi e ripulire l’aria. Un nuovo paper del National bureau of economic research scopre che l’industria pesante ha ridotto le emissioni e aumentato la produzione di beni. Non c’entra la delocalizzazione in Cina ma gli investimenti in tecnologie.

Roma. La profezia degli ambientalisti catastrofisti trova oggi parziale smentita. Il sistema capitalistico non ci porterà alla rovina lasciando dietro di sé un pianeta soffocato e agonizzante ma è anzi capace di mondare le sue colpe, di attivarsi per conciliare la massima produzione di beni e ricchezza con la riduzione drastica dell’inquinamento atmosferico. La prova arriva dagli Stati Uniti, una lezione per i pigri capitalisti privati italiani e per i tifosi dei sussidi pubblici alle energie rinnovabili.

 

Dal 1990 al 2008 la produzione dell’industria manifatturiera pesante americana è cresciuta di un terzo mentre l’inquinamento dell’aria (per colpa per esempio dell’anidride solforosa) è diminuito di due terzi. Come si spiega? Una delle motivazioni più in voga semplicemente riconduce tutto alla delocalizzazione degli impianti industriali inquinanti in paesi con vincoli ambientali laschi, notoriamente la Cina. La notizia non sarebbe per nulla confortante se le emissioni “emigrassero” da una parte all’altra del pianeta. Tuttavia in una ricerca pubblicata dal National bureau of economic research, la più grande organizzazione di ricerca economica degli Stati Uniti, questa teoria viene confutata. L’autore dello studio “A direct estimate of the technique effect: changing of the pollution intensity of Us manufacturing 1990-2008”, l’economista della Georgetown University, Arik Levinson, dimostra che nel ventennio precedente la crisi finanziaria il calo delle emissioni inquinanti per una quota pari al 90 per cento, ovvero la quasi totalità, è da imputare all’adozione di nuove tecnologie produttive più pulite ed efficienti da parte di 400 aziende manifatturiere prese in considerazione nello studio

 

Sono industrie pesanti e lo si deduce dagli inquinanti prodotti su cui si concentrano le analisi, dall’anidride solforosa, al monossido di carbonio e altri tipi di particolati. Il calo delle emissioni è da ricondurre in particolare all’installazione di sistemi di riciclo e cattura del pulviscolo e all’uso di carburanti diversi dal carbone, come il gas naturale (risorsa ampiamente disponibile dai pozzi di shale-gas, scoperta relativamente recente). Per la precisione i calcoli di Levinson suggeriscono che tra l’88 e il 92 per cento del calo di emissioni di anidride solforosa, prodotto tra l’altro della combustione del carbone, deriva dall’uso di tecnologie cattura-inquinamento.

 

L’elemento più interessante che emerge  è controintuitivo rispetto alla vulgata e al dibattito mainstream sul tema. A chi sostiene che la migrazione delle imprese verso i paradisi del pulviscolo atmosferico sia alla base della riduzione dell’inquinamento, Levinson risponde che la composizione dell’industria americana è rimasta invariata – non c’è stato il cosiddetto off-shoring della manifattura in altri paesi – e che l’intensità produttiva, l’output di valore generato, è aumentato in maniera inversamente proporzionale alla riduzione delle emissioni (vedi il grafico in pagina). Una replica indiretta anche a chi sostiene che la recessione possa rivelarsi una manna per l’ambiente secondo lo schema “depressione economica” uguale “meno industrie” e quindi uguale “aria pulita”.

 

[**Video_box_2**]Lo studio non chiarisce quali siano le cause scatenanti della riconversione industriale (ravvedimento dei capitalisti della grande industria o provvedimenti motivati dalla minaccia di sanzioni da parte delle autorità federali?) ma aggiunge un argomento inedito al dibattito globale su come conciliare le esigenze ambientali con quelle produttive dell’industria. Uno spunto di riflessione nella diatriba tra ambientalisti radicali e industriali refrattari a investimenti produttivi in ottica ambientale di particolare interesse per l’Italia. Levinson parla a entrambi quando dice che “i risultati della ricerca dovrebbero essere ben accolti da chiunque sia preoccupato del fatto che le regolamentazioni in materia ambientale possono essere efficaci solo riducendo la gamma di prodotti offerti ai consumatori oppure spostando le produzioni inquinanti da un paese sviluppato a uno in via di sviluppo. Ogni ‘operazione di pulizia’ negli Stati Uniti che sia il risultato di cambiamenti tecnologici rappresenta una concreta riduzione dell’inquinamento globale e dà reali benefici per l’atmosfera”.

 

L’aria più pulita nell’ultimo decennio

 

Gli Stati Uniti forniscono un esempio da seguire ai paesi dalla crescita trainata da produzioni ad alto tasso di inquinamento come Cina e India. L’aria in America è diventata più pulita nell’ultimo decennio. Le emissioni di diossido di azoto (No2), composto irritante per le vie respiratorie, usato dagli scienziati come proxy dell’inquinamento generale, sono scese in modo considerevole, secondo le rilevazioni dell’agenzia Nasa pubblicate nel giugno scorso e relative al periodo 2005-2011. Le indagini dell’agenzia per la protezione dell’ambiente (Epa) aggiungono che la concentrazione di No2 è scesa del 60 per cento dal 1980 al 2013. Ci sono semplici ragioni per spiegarlo. Gli impianti di generazione elettrica hanno installato filtri per trattenere il pulviscolo e hanno convertito gli impianti a carbone in impianti a gas, le case automobilistiche producono in serie vetture con marmitte catalitiche o elettriche. Ovviamente le emissioni non sono svanite: 147 milioni di americani vivono in zone inquinate.
Tuttavia le energie sprigionate da un sano e reattivo sistema capitalistico, come quello americano e più in generale anglosassone, si rivelano più efficaci per l’ambiente delle agende globali che da anni fissano obiettivi di riduzione delle emissioni disegnati sull’acqua, delle folli politiche di sussidio alle energie rinnovabili di cui la Germania è (cattiva) maestra in Europa e ne sta facendo le spese,  dell’inconcludente oltranzismo ambientalista dedito alle manifestazioni di piazza e alla produzione ridondante di reportistica a uso di Ong, per non parlare di tutte le chiacchiere attorno alla dottrina della “slow economy” che spesso risuonano nei convegni  italiani.


NASA's Goddard Space Flight Center


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  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.