Perché è così difficile dire forza Ucraina

Redazione

Merkel vuole che Obama tenga a bada i falchi americani. L’Ue allarga le sanzioni ma aspetta ad applicarle, mentre a Berlino si fanno i conti di un eventuale fallimento. L’Italia è nervosa, Kiev di più. Putin dov’è? Al Cairo.

Roma. Telefonate, incontri, bozze di road map, inviti, piani alternativi. La diplomazia occidentale è al lavoro per trovare una soluzione alla crisi ucraina che il capo del Cremlino, Vladimir Putin, non possa rifiutare. I falchi che vogliono armare l’esercito ucraino assediano la Casa Bianca, che spinge per la cautela, mentre Barack Obama incontra la cancelliera tedesca Angela Merkel e gli europei aspettano di vedere che cosa succede al vertice di domani a Minsk per modellare la propria strategia. Ecco come si sta sviluppando quella che il Wall Street Journal definisce “la corsa per disinnescare la crisi ucraina”.

 

Un’altra “red line” per Obama. “Io e Angela abbiamo sottolineato che le probabilità di una soluzione militare a questo problema sono basse”, ha detto ieri Barack Obama dopo l’incontro alla Casa Bianca con il cancelliere tedesco, Angela Merkel, applicando alla crisi ucraina un principio di politica estera che è diventato l’ultimo dei molti mantra obamiani: non tutti i problemi del mondo hanno una soluzione militare. A Washington, Merkel ha confermato l’opposizione dell’Europa alla fornitura di armamenti all’esercito di Kiev, opzione che ha preso forza nelle ultime settimane fra gli analisti legati al Pentagono, il dipartimento di stato e alcuni think tank e che ha coagulato un fronte bipartisan al Congresso. La cautela mostrata da Obama ieri è la prova del gap fra la posizione della Casa Bianca e l’interventismo montante nei circoli della sicurezza della capitale: l’America “preferisce una Russia prospera” e crede in una soluzione diplomatica al conflitto, in linea con l’iniziativa franco-tedesca. Questo vale almeno fino al vertice di Minsk di domani, nella speranza che il summit bielorusso non si risolva come quello che lo ha preceduto, ovvero con un accordo di massima disatteso da Mosca. E qual è la “red line” che Vladimir Putin deve superare per far scattare le forniture militari “lethal”?, ha chiesto una giornalista in conferenza stampa: “Non c’è un momento specifico in cui dirò che le armi difensive sono appropriate”, ha risposto Obama. Ancora una volta la “red line” è invisibile.

 



 

L’attendismo dell’Ue. Evitare un veto pro russo della Grecia, rassicurare la Lituania che teme di essere il prossimo bersaglio di Putin, ottenere il consenso di un’Ungheria che ammira il capo del Cremlino, accontentare la Polonia che vede nell’appeasement un incoraggiamento all’aggressore. Mettersi d’accordo in Ventotto è impresa quasi impossibile, così i ministri degli Esteri dell’Ue, ieri, hanno trovato un compromesso per punire la Russia dopo l’attacco a Mariupol’, ma tenere viva l’illusione della diplomazia. La lista nera di ribelli ucraini e responsabili russi cui è vietato l’ingresso sul territorio europeo è stata allargata a 19 personalità e 9 società. La decisione è presa, ma “per dare spazio agli sforzi diplomatici l’attuazione è stata congelata fino al 16 febbraio”, spiega al Foglio una fonte europea. Dopo Minsk, l’Ue potrebbe fare marcia indietro. In realtà, la lista nera è una misura simbolica, utile a mascherare le divisioni sulle sanzioni economiche che potrebbero riemergere al Vertice dei leader giovedì in caso di fallimento a Minsk.

 

Il sogno da “mediatore capo” di Hollande. Il 6 dicembre 2014, a sorpresa, l’aereo di François Hollande si era posato all’aeroporto di Mosca di ritorno da un viaggio in Kazakistan. Mentre il prezzo del petrolio e il rublo precipitavano, e dopo il fallimento dei colloqui tra Vladimir Putin e Angela Merkel al G20 di Brisbane, il presidente francese aveva intravisto la possibilità di diventare il “mediatore capo” della crisi ucraina. “Oggi la de-escalation è possibile”, aveva annunciato Hollande. Due mesi e un’escalation russa dopo, il presidente francese non ha perso la speranza, visto il nuovo viaggio a sorpresa a Mosca con Merkel. Il gesto di dicembre è valso alla Francia un po’ di sollievo nella controversia sui Mistral: il Cremlino ha smesso di preannunciare una richiesta di danni per la mancata consegna di una delle nuove navi d’assalto che la Francia ha costruito per la Russia. Ma i rapporti economici franco-russi vanno oltre i Mistral. Total è uno dei principali partner dei colossi russi nel settore energetico. La crisi economica russa pesa sui gruppi francesi: le vendite del costruttore di auto Avtovaz, alleato di Renault, sono crollate del 15 per cento nel 2014.

 



 

I costi tedeschi se Merkel fallisce. In Germania li chiamano “Putin Versteher”: sono quelli che comprendono Vladimir Putin. Tra i Ventotto, nessuno come i tedeschi capisce le ragioni della grande Russia: l’orso ai confini orientali va trattato con prudenza, rassicurato. Interessi economici e legami storici giustificano la pazienza mostrata dalla cancelliera Merkel nella crisi ucraina. La Germania è il primo partner commerciale della Russia, quello che ha più da rimetterci da un collasso dell’economia russa. Merkel deve fare i conti anche con i limiti della grande coalizione con i socialdemocratici. I “Putin Versteher”, oltre agli industriali e ai nostalgici sovietici dell’estrema sinistra, includono l’ex cancelliere Gerhard Schröder e i suoi eredi. Dopo due mesi di immobilismo, la cancelliera si è lanciata nei nuovi colloqui di Minsk per rispondere alla tentazione americana di assumere la leadership in Ucraina. Alla conferenza sulla sicurezza di Monaco, Merkel ha risposto alle pressioni americane “difendendo la sua leadership in termini di iniziativa” sull’Ucraina, spiega Josef Janning dell’European Council on Foreign Relations. Ma gli eventuali “costi del fallimento ora ricadono sulle spalle” della cancelliera.

 

L’insofferenza dell’Italia. Il ministro degli Esteri italiano, Paolo Gentiloni, lo ha detto per la prima volta la scorsa settimana, e poi lo ha ripetuto ancora: fornire armi letali all’Ucraina è un “azzardo ingiustificato”, un “grave errore”, un “rischio enorme”, una proposta a cui dare un “no secco”. Sull’idea di armare Kiev contro Putin, e davanti alla possibilità di un’escalation militare nel Donbass, la diplomazia italiana è allineata a quella europea, ed è percepibile, benché strisciante, l’insofferenza nei confronti dell’attivismo marziale del Congresso americano. Il timore è per quelle “conseguenze imprevedibili” che Putin ha paventato in questi giorni, e che l’Europa possa trovarsi a dover gestire una specie di nuova Sarajevo. Solo gli americani possono permettersi di aumentare il livello della provocazione con Putin, si dice, e ancora ieri, da Bruxelles, Gentiloni ripeteva che “non c’è alternativa al negoziato”. Poi, certo, davanti a una decisione americana di inviare armi “l’Italia seguirebbe perché gli Stati Uniti sono il nostro primo alleato”. Ma con riluttanza.

 

Gli errori di Poroshenko. Armare l’Ucraina presenta anche altre incognite oltre alla reazione di Putin. Il presidente Petro Poroshenko guida uno stato quasi fallito, con un esercito sfiancato e una strategia militare senza sbocchi. Kiev avrebbe bisogno di un bailout (il secondo in meno di un anno) che il Fmi esita a concedere a causa dell’instabilità militare. La moneta nazionale, la grivnia, sprofonda e l’Economist ha stimato che per vedere la fine del 2015 lo stato ucraino avrà bisogno di almeno 20 miliardi di dollari. Le riforme economiche e la lotta alla corruzione vanno a rilento. Sul fronte del Donbass, molte operazioni delle truppe ucraine finiscono nel disastro a causa di uno sforzo militare pianificato ed eseguito male. La scelta degli obiettivi, come il perduto aeroporto di Donetsk, spesso risponde a ragioni politiche più che strategiche, e la politica degli annunci di Poroshenko non fa che abbassare il morale. L’esercito inoltre è infiltrato dai servizi d’intelligence di Mosca, che spesso fornisce dati precisi ai separatisti sulle posizioni dei nemici. Il pericolo di infiltrazioni è tale che un generale ucraino ha detto al New York Times che l’America dovrebbe dare le sue armi direttamente ai soldati sul fronte, perché del comando nelle retrovie non ci si può fidare.

 

Putin accolto come un eroe al Cairo. Vladimir Putin ieri era al Cairo ospite del presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi. Il presidente russo vuole lucidare la sua patente di combattente antiterrorismo, e mostrare che lo spettro delle sue alleanze si estende fino al Cairo. I due discutono di un accordo per la fornitura di armi all’Egitto (gli elicotteri che Obama non vuole affidare all’autoritario Sisi), dopo uno già firmato a settembre da 3,5 miliardi di dollari, e di un’intesa per usare le valute locali, e non il dollaro, per gli scambi commerciali bilaterali. Se il messaggio non fosse abbastanza chiaro, pochi giorni fa il quotidiano di stato al Ahram titolava così, in grande: “Putin, eroe dei nostri tempi”.

 

I morti, dal cosiddetto “cessate il fuoco”. Dalla firma del cessate il fuoco a Minsk, a settembre, nel Donbass sono morte più di duemila persone.

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