Ed Miliband, a sinistra, e Chuka Umunna, a destra, si stringono la mano durante la conferenza autunnale del Partito laburista a Brighton

Ora arriva il neo Labour

Paola Peduzzi

Quante etichette, che crisi di identità. Ed Miliband si gioca l’elezione della vita, ma nella sinistra inglese emerge una nuova svolta. Un po’ di nostalgia blairiana, e molto Matrix. Il leader del partito laburista è in piena “charm offensive”, sembra pure simpatico, ma tutti parlano solo del suo successore.

La “charm offensive” di Ed Miliband è iniziata la settimana scorsa al Westminster political correspondent’s dinner, la versione inglese della cena con i giornalisti della Casa Bianca, quando il leader del Labour inglese si è preso molto in giro, ironizzando sul suo rapporto tragico con i media inglesi e in generale con il pubblico britannico. So cosa avete pensato, ha detto parlando ai giornalisti in sala, quando avete saputo che sono stato a cena con George Clooney: “Eccoli lì, un sex symbol internazionale che fa impazzire le donne e il protagonista di ‘Ocean’s Eleven’”. Ha ricordato la sua foto terribile mentre mangia un panino con il bacon, goffo e inadeguato, che ha fatto il giro del mondo, “forse soltanto alcuni allevatori di yak in Nepal non l’hanno vista”. E ancora, ha ripetuto quel famoso aneddoto secondo cui  un giorno, rimasto chiuso per sbaglio in casa, è riuscito a uscire da una finestra per correre a un incontro con l’allora premier Gordon Brown: “Sono l’unica persona al mondo che è evasa per stare più vicina a Gordon Brown”. E via così, passando per le scene di vita familiare, i bambini persi al parco, un figlio che minaccia di votare l’Ukip: tutti ridevano, gioviali e stupiti, questo Ed Miliband sa essere simpatico, allora.

 


Il leader del partito laburista inglese, Ed Milliband


 

Le lezioni di “empatia” cui il capo del Labour si è sottoposto l’anno scorso su consiglio dei suoi guru elettorali (a differenza della Thatcher lui non si è opposto: quando le dissero di togliere di mezzo la sua borsetta, lei iniziò a utilizzarla come un’arma contundente) devono avere dato i loro frutti, o forse Miliband è simpatico di suo, chissà, certo ha un problema di leadership piuttosto spiccato se a Londra non si fa che parlare del suo probabile, possibile, inevitabile successore.

 

Molti esperti, numeri in mano e speranze in tasca, ripetono: fate male, voi scettici, a dare Miliband per spacciato al voto del 7 maggio prossimo. Andrew Rawnsley ha ricordato sull’Observer un paio di settimane fa che, nelle elezioni incerte (e questa è la-più-incerta-di-sempre), spesso s’impone il candidato meno probabile, come quando John Major  vinse contro Neil Kinnock nel 1992 (ricordo invero penoso), o come quando, nel 1970, Ted Heath sconfisse Harold Wilson (era talmente inattesa, la vittoria, che nella notte del conteggio Heath si concesse addirittura un pisolino: lo svegliò la donna delle pulizie dicendogli che aveva telefonato Nixon per congratularsi). In questo 2015 di suspense, poi, non ci sono nemmeno distanze incolmabili tra i due contendenti, i sondaggi sono testa a testa e David Cameron, il premier conservatore, non gode di una popolarità straordinaria, per quanto stia facendo una campagna elettorale decisamente più aggressiva. Il problema semmai è che nemmeno i compagni di partito di Ed Miliband credono che il loro leader ce la possa fare.

 

Sempre Rawnsley, cantore della riscossa della sinistra, domenica ha fatto una ramanzina ai laburisti: in anni di liti furibonde, troppi galli e pochi pollai, ancora non avete capito che l’unica cosa che paga, alle elezioni, è la fedeltà al leader e l’unità di partito? La risposta è: no, non l’hanno capito, e per questo sarebbero tutti da punire, i contestatori, come ha detto il boss dei sindacati britannici, Len McCluskey, grande sostenitore, come tutti i sindacalisti, di Miliband. Se nel Labour sono tutti (più o meno) d’accordo nel rifiutare, dopo tanti anni, la faida con i capelli bianchi tra blairiani e browniani – l’esercito di Tony Blair contro quello di Gordon Brown, guerra che ha scandito la storia del New Labour fin dall’esordio – sul resto ogni pretesto è buono per prendere le distanze, da chiunque, in qualsiasi momento, mai bruciarsi, mai lasciare gli spalti. In questo equilibrismo ci sono finiti più o meno tutti, i laburisti che contano, con il rischio poi di perdersi del tutto (come accadde a David Miliband, fratello di, che voleva far fuori Brown, ci pensava, poi però non lo faceva, ed è finito vittima del golpe di Ed-Bruto). Il Sunday Times scrive che è in corso una guerra civile nel Labour, ed è ovvio che, essendo un giornale conservatore, condisca di gioia maniacale i suoi retroscena, ma a mettere in fila i fatti e i volti si scopre che sì, il caos è assoluto, ma sta riemergendo una corrente in sintonia con il passato glorioso del New Labour, quella che non avrebbe mai voluto togliere dal nome quel “New” così programmaticamente rilevante, e che ora ci mette un altro prefisso, che suona simile, ma è diverso: “Neo”. E, siccome l’opportunismo è un valore sacro in politica, questi “Neo” sono i meno feroci nei confronti di Miliband.

 

James Kirkup ha spiegato sul Telegraph che “l’attuale generazione di parlamentari blairiani (che sono sempre più propensi a lasciar cadere l’etichetta ‘blairiano’, forse ‘neo-blairiano’ è il massimo che potranno ottenere) è tra i sostenitori più significativi di Miliband”. Vuoi vedere che adesso lo scontro – uno dei tanti – è tra blairiani vecchi e nuovi, visto che il leader della corrente, l’ex premier Blair, ha più volte detto che, con un candidato così, il Labour non vincerà mai? Improbabile. Certo, c’è la volontà di distaccarsi dal passato e da un brand ormai declinante, ma siccome il blairismo non è soltanto un uomo, ma è soprattutto un’idea – un’idea di sinistra liberale, per le riforme – i vecchi e nuovi non sono distanti. Semmai fanno, in pari misura, calcoli raffinati.

 

Kirkup, imbeccato da una sua fonte “non blairiana”, ricorda la strategia di John Golding, laburista coriaceo scomparso nel 1999, che accettò di firmare il famoso manifesto elettorale del 1983, quello passato alla storia come la più lunga “suicide note” della storia. Eppure lui era uno dei più forti oppositori dell’allora candidato Tony Benn, perché avallare la decisione suicida? Perché, diceva Golding, il Labour avrebbe certamente perso le elezioni, e allora era meglio dare a Benn tutta la corda che voleva, “quando avremo perso, la userò per impiccare quei bastardi”.

 

Oggi i toni sono molto meno brutali, ma tra gli aspiranti golpisti – scellerati, visto che si vota tra meno di tre mesi, e nessuno oggi si sognerebbe mai di mettersi al posto di Ed Miliband, e comunque lui non lo permetterebbe – non compaiono i cosiddetti “neo” laburisti. Chuka Umunna, ministro del Business ombra e protagonista di una campagna elettoral-tuittarola chiamata #Futurejobs che fa molto leader del futuro, è stato in questi giorni categorico: “Tutti i membri della famiglia laburista – ha detto – ora devono essere ben allineati e focalizzati sulla vittoria”. Non vuole essere considerato responsabile di un’eventuale sconfitta, o di aver remato contro, lui che è soprannominato “il Neo” del Neo Labour, dove Neo è il protagonista di “Matrix”, l’eletto, l’uomo che salverà il mondo. Secondo un’indiscrezione trapelata da ultimo sul Daily Mail (che massacra Miliband anche più volte al giorno), Tony Blair avrebbe definito Umunna “l’erede naturale” del progetto del New Labour. Soprannominato “l’Obama britannico” perché, banalmente, è nero, Umunna è considerato il più riformatore del partito (parla spesso di crescita e di competitività, concetti che Miliband usa con poca dimestichezza), ha una formazione fortemente blairiana, ma di lui si dice anche: “artefatto”, “con un ego della dimensione di Marte”, “robotico”, “uno che ama più se stesso che il Labour”, “determinato, come quei cavalli della polizia addestrati per non farsi distrarre dai rumori del traffico”. E’ progettato per fare il leader, insomma, ed è stato l’unico a contrastare l’Ukip sul terreno della xenofobia e dell’immigrazione, chiamando tutto il partito all’appello: se non lo diciamo noi che il partito di Nigel Farage mette a repentaglio il nostro modello sociale, allora non lo può fare nessuno. “Rompe le righe”, hanno titolato i giornali, ma in realtà Umunna sta anche e soprattutto costruendo la sua leadership nell’ombra, deciso però a non passare per quello che ha rovinato il sogno di Miliband (che è anche quello di chi vota Labour, cioè vincere).

 


Chuka Umunna, ministro del Business ombra


 

La sua prova di lealtà, Umunna, l’ha data proprio in questi giorni: il chief executive di Boots, Stefano Pessina (vedi box), ha detto che la vittoria del Labour sarebbe una catastrofe per il paese – inaugurando una serie di interventi che registrano lo scetticismo della City e del business inglese rispetto alle proposte “solidaristiche” ma troppo dispendiose del Labour e del suo leader, definito più o meno un arnese degli anni Settanta – e il ministro del Business ombra ha dettato la linea: non prendiamo lezioni da uno che vive a Monaco e non paga le tasse nel Regno Unito. In realtà la sortita non ha avuto l’effetto sperato (i dipendenti di Boots sono in Inghilterra) ma qui non si discute di efficacia, qui si discute di fedeltà. E in questo momento, per il Neo Labour che vuole contare anche nel caso Miliband infine vincesse, facendo pressioni per fare quelle riforme che non paiono consone alla visione politica del leader, l’importante è non finire tra i contestatori della leadership. Come ha detto John Woodcock, un altro blairiano di spicco, “è piuttosto demoralizzante per chi sta facendo campagna elettorale in seggi contesi venire oscurati dalle faide interne ora che siamo così vicini alle elezioni. Spero davvero che tutti gli scettici alzino il telefono, la prossima volta, e chiamino direttamente Ed, piuttosto che andare a parlare in tv”. I contestatori, insomma, come ha detto John Prescott, esponente del Labour degli anni Novanta, sono “dei collaboratori dei Tory”.

 

Mantenere l’unità per Miliband è comunque parecchio difficile, perché i suoi compagni, che sono cresciuti politicamente negli anni in cui i tempi della politica sono diventati importanti quanto le politiche stesse, sanno sempre trovare il momento per colpire forte. Alan Milburn e John Hutton, ex ministri di Tony Blair, hanno criticato Miliband sulle sue politiche per la riforma del sistema sanitario (Nhs) – tema cruciale per il Labour, tema debolissimo per i Tory – nel giorno in cui il leader laburista spiegava al pubblico il complicato piano per i prossimi dieci anni dell’Nhs. Tempismo perfetto: nessuno ha capito nulla del futuro della sanità britannica, in compenso i giornali si sono riempiti di titoli sulla guerra interna del Labour.

 

[**Video_box_2**]Molti si sono ribellati ai continui attacchi fratricidi, non si sa se per tenersi tutta la corda possibile a disposizione o perché sperano ancora in una vittoria, fatto sta che Tristram Hunt, il ministro dell’Istruzione ombra, ha detto ai vecchi blairiani di stare zitti: “Arriva il momento, in un ciclo elettorale, in cui ogni singolo membro del Labour deve accodarsi alla leadership. Questo momento è adesso”. (Va detto che anche la sua fedeltà è recente, fino a un paio di mesi fa compariva tra quelli che andavano disperandosi per il “totale disastro” in arrivo il 7 maggio a causa delle performance negative di Miliband). Così, sommando ambizioni  e opportunismi vari, attorno a Miliband si sta creando un muro che lo difende dagli attacchi più feroci, e il muro è formato proprio da quelli che sperano di ricostruire, alle sue spalle, una sinistra progressista e liberale, in linea con la storia del New Labour e con quello che accade sul continente europeo.

 

Nessuno però abbassa la guardia, perché se è vero che tra blairiani ci si mette poi tutti d’accordo, con i browniani il divario è incolmabile. Come ha detto al Times un parlamentare blairiano riferendosi ai browniani: “Possono non aver più le forze dell’inferno con loro ma hanno comunque quelle del purgatorio”. Da quella parte del cielo, che è la stessa in cui è cresciuto Miliband, si combatte per restare in piedi, perché senza il candidato premier a sostegno, la sopravvivenza è sempre più incerta.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi