Come può funzionare (bene) la carta nella magica era del digital first

Piero Vietti

Correzioni orwelliane e articoli pensati per Facebook. Il caso "Evergreen" di Vox e altri spunti per capire la nuova editoria. Il ribaltamento del tradizionale lavoro giornalistico: si pensa ai contenuti da pubblicare innanzitutto online, e la carta diventa un collettore di lusso delle cose migliori

Roma. Per provare a capire dove stanno andando il giornalismo e il mondo dell’informazione oggi, è certamente utile osservare come i grandi giornali tradizionali stanno affrontando la crisi modificando le proprie caratteristiche e il metodo di lavoro per fare i conti con il calo dei lettori e della pubblicità, ma non si può prescindere da alcuni esperimenti nati recentemente in America che stanno cambiando le regole del gioco. Nel 1948 George Orwell immaginò che Winston Smith, il protagonista del suo romanzo più famoso e citato, “1984”, lavorasse al ministero della Verità con il compito di riscrivere la storia secondo i dettami del Grande Fratello. Smith correggeva libri e articoli di giornale che non raccontavano la “verità” di quel momento: ciò che era vero il giorno prima, infatti, poteva benissimo non esserlo più il giorno dopo. Così corretti, gli articoli di giornale avrebbero raccontato una nuova versione dei fatti a chi li avesse consultati.

 

Da qualche giorno Vox, il sito di informazione online nato un anno fa e diretto dall’ex columnist del Washington Post Ezra Klein, ha lanciato il progetto “Evergreen”, che consiste nell’aggiornare vecchi post e articoli già pubblicati sulle proprie pagine e rilanciarli così modificati come se fossero nuovi. Perché riscrivere da capo un articolo su un tema già trattato in passato, quando basta correggere alcune frasi, aggiungerne un paio e toglierne qualcuna per offrire ai lettori un prodotto ancora utilizzabile, e soprattutto condivisibile di nuovo sui social network? Secondo i responsabili di Vox i primi 88 post “aggiustati” hanno superato i 500.000 lettori in una settimana, nessuno dei quali sembra essersi accorto che stava leggendo un pezzo che aveva già letto. “Un sacco di articoli – ha scritto Matthew Yglesias su Vox.com – sono stati entusiasticamente rilanciati sui social network da persone che già avevano condiviso la versione precedente”. L’esperimento funziona per due motivi: immersi nel flusso continuo delle notizie, tendiamo a dimenticare in fretta che cosa abbiamo letto se non ne diamo un giudizio (cosa che accade raramente online), ma soprattutto dimentichiamo dove lo abbiamo letto. Aggiornare vecchi articoli su web non è una trovata originale di Vox, molte testate anche storiche lo fanno, solo che normalmente mettono all’inizio o alla fine del pezzo una riga per segnalare l’update, oppure lasciano le frasi cancellate ancora visibili, con una riga tracciata sopra.

 

Nel grande oceano del web nulla si perde, è vero, ma anche tutto può essere cambiato. Come notava qualche giorno fa Matthew Ingram su GigaOm, su internet è facile che le cose scompaiano in una sorta di “buco della memoria” fino a un punto in cui nessuno ricorderà più qual era l’errore originario, né chi lo ha fatto o perché. Chiunque abbia fatto ricerca in un archivio in vita sua sa che tutto ciò che è stato scritto su un giornale negli ultimi 150 anni almeno è lì, recuperabile, impresso per sempre su pagine di carta salvate in qualche sistema che difficilmente le perderà, errori compresi. C’è chi ha paragonato l’esperimento “Evergreen” di Vox al lavoro di Winston Smith in “1984”, ma si potrebbe replicare che proprio perché il web è continuamente accessibile a tutti, una notizia sbagliata non corretta potrebbe continuare a circolare indisturbata per anni senza che chi condivide lo sappia. Il confine tra servizio alla verità e manipolazione è sottile, come si dice in questi casi, ma il successo di Vox in appena un anno di vita fa pensare che i lettori si fidino dell’autorevolezza della testata che fin dall’inizio ha sperimentato nuovi modi di fare informazione.

 

D’altra parte il web per sua natura tende – o tenderebbe – ad autocorreggersi. Almeno così la pensa Sasha Frere-Jones, per oltre dieci anni critico musicale del New Yorker che un paio di settimane fa ha annunciato il suo addio allo storico magazine per andare a dirigere Genius, un sito che ha l’ambizione di creare un sistema per permettere a chiunque di commentare o aggiungere note a qualsiasi testo presente sulla rete, trasformando in web in un’immensa Wikipedia (l’enciclopedia online che tutti possono modificare), praticamente un caos di opinioni in cui forse neppure l’orwelliano ministero della Verità riuscirebbe a capirci qualcosa.

 

[**Video_box_2**]E se la verità diventa sempre più indefinita e inafferrabile nel flusso senza requie del web, il supporto su cui viene raccontata cambia continuamente. Da una parte la carta sta diventando – o almeno dovrebbe – luogo del giudizio, dell’approfondimento, del “meglio di”, il concetto di “digital first” è entrato con prepotenza nel lavoro di molte redazioni giornalistiche (soprattutto fuori dall’Italia, dove non si vive con la paura che qualcuno possa rubare una notizia pubblicata sul web e rivendersela come propria il giorno dopo in edicola, né chi fa  giornali è ancora convinto che il digitale sia la spazzatura della redazione). Dietro alle due parole inglesi che fanno molto cool c’è il ribaltamento del lavoro tradizionale: si pensa ai contenuti da pubblicare innanzitutto online, e la carta diventa un collettore di lusso delle cose migliori (e non troppo lunghe). Anche in questo aspetto è utile vedere che cosa combinano i nuovi player dell’informazione online americana per capire dove si andrà. Il Daily Beast, sito di difficile definizione perché alterna il cazzeggio puro alle analisi politiche e le fotogallery dei gattini alle notizie esclusive, ha sviluppato da poco una app per tablet e smartphone che permette ai lettori di scartare con un gesto del dito le notizie che non interessano. L’algoritmo presente nel sistema memorizza queste preferenze, crea una lista con gli articoli letti e quelli saltati (così che uno possa sempre tornarci) e usa queste informazioni per suggerire nuove letture in base alle proprie preferenze.

 

Il concetto di base è analogo a quello degli algoritmi che fanno funzionare le ricerche su Google o la timeline di Facebook, che mettono in evidenza risultati e post affini ai nostri gusti. E a proposito di Facebook, è ancora una volta Vox che bisogna guardare. Da qualche tempo il sito di Klein produce moltissimi contenuti pensati solo per essere pubblicati sui social network. Chiunque abbia un account Facebook sa di cosa stiamo parlando: l’esempio più noto sono quei video che partono in automatico mentre scrolliamo la nostra home page, grazie ai quali la società di Mark Zuckerberg sta raggiungendo YouTube nel numero delle visualizzazioni video. La redazione di Vox prepara quotidianamente video, immagini e infografiche pensate apposta per comparire soltanto sui social network. Al momento l’obiettivo, spiegava su Digiday due giorni fa Lucia Moses, è quello di farsi conoscere diventando virali su bacheche e timeline di tutto il mondo, e solo in seconda battuta quello di portare clic sul proprio sito: il lettore non deve cliccare da nessuna parte per vedere il contenuto, e può goderselo restando su Twitter o Facebook. Ma come spesso succede in questi casi, è al futuro che bisogna guardare per capire che cosa hanno in mente quelli di Vox: il giorno in cui Facebook inserirà pubblicità su questi contenuti e comincerà a dividere i ricavi con chi li produce (e succederà, prima o poi succederà), loro saranno già pronti. Prima degli altri.

 

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  • Piero Vietti
  • Torinese, è al Foglio dal 2007. Prima di inventarsi e curare l’inserto settimanale sportivo ha scritto (e ancora scrive) un po’ di tutto e ha seguito lo sviluppo digitale del giornale. Parafrasando José Mourinho, pensa che chi sa solo di sport non sa niente di sport. Sposato, ha tre figli. Non ha scritto nemmeno un libro.