Riccardo Cotarella chiede al Papa se sia vero che beve solo il Mate, e l’incolpevole Pontefice risponde che no, gli piace il vino, però con molta moderazione

In vino veritas

Michele Masneri

Il fior fiore dell’aristocrazia vignaiola, con sommelier e Bruno Vespa al seguito, in udienza dal Papa. Il segno della croce si fa con lo smartphone in mano, e dopo il Padre e il Figlio, allo Spirito Santo tutti premono il tasto “invia”.

I signori del vino sono mattinieri. Alle otto di mattina il cielo sopra San Pietro è grigio-piombo, e la città ancora immobile prima degli ingorghi, ma i tre pullman sono già partiti dall’Hilton di Monte Mario, ed escono da quella cancellata nero-oro che lo fa assomigliare a una grande ambasciata cinese o a un ristorante di involtini primavera e si vanno a incistare nel parking sotterraneo del Gianicolo. I tre pullman contengono i vignaioli più importanti d’Italia, da Gaja a Antinori a Biondi-Santi, più un seguito di sommelier, blogger, giornalisti, e Bruno Vespa. I signori del vino non hanno neanche la scorta, se ci fosse un Is intelligente avrebbe potuto attaccare il convoglio, e l’Italia tornerebbe al Tavernello.

 

Invece il convoglio scarica indenne il suo carico di produttori alcolici: alla testa dei signori del vino c’è Franco Maria Ricci, nessuna somiglianza neanche antropologica con l’editore sofisticato di Fontanellato, ma invece un iperattivo fondatore della Fondazione italiana sommelier, che già organizza, su all’Hilton, un “Oscar del vino”, in cui si assegnano fondamentali premi annui tra polke, mazurke e valzer in costume per questo Bilderberg del vino nei bunker sotterranei dell’albergone sopra Monte Mario.

 

Adesso l’ultima trovata è portare i signori del vino dal Papa. “Il Santo Padre è amante del buon vino e legge regolarmente la nostra rivista” dice lui, forse esagerando, e però la sua associazione fornisce la carta dei vini dei voli Alitalia by Pontefice da otto anni, dunque fornitore della Real Casa già in epoca Ratzinger (che pure aveva esordito con la famosa frase “sono un umile pastore della vigna, non a caso”). Quindi si va: eccoci dunque con questa gita scolastica molto elegante fare i controlli sotto il colonnato, e poi accedere alla orrida Sala Paolo VI, che pare una assemblea dell’Onu, con queste architetture garagistiche anni Sessanta di Pier Luigi Nervi, dodicimila posti a sedere e una grande copertura stondata, sembra di stare nell’autosilo di villa Borghese di Moretti; però in alto a destra una specie di coro ligneo dove stanno i traduttori, e di fronte, su un mega palco, la gigante “Resurrezione” bronzea di Pericle Fazzini, che pare uno di quei decori di caramello duri e croccanti sulle torte.
Quando si sta per entrare nel salone simil-Onu, insieme a centinaia di famiglie, suore, e sposine in bianco elettrizzate, e venditori di braccetti per selfie e detentori di braccetti per selfie, ecco il primo grande sturbo. Siamo dunque all’udienza generale, quella di massa, del mercoledì, quella del bigliettone azzurro rilasciato dalla Prefettura pontificia, con specificato che “il biglietto è del tutto gratuito”, in sei lingue. Grande delusione dunque tra i signori del vino, che dovranno mischiarsi con la folla. Quasi nessuno lo dice, però qualcuno ci rimane male. Tra molte pellicce, alcune signore del vino sono infatti venute tutte in nero, una anche con mantiglia, come le regine cattoliche dal Santo Padre.

 

Un bel signore sceso dal pullman numero due e molto araldico, con cappotto di panno blu, e chevalière al mignolo, viene molto omaggiato dagli altri: è il marchese Carlo Guerrieri-Gonzaga, stirpe almeno millenaria, proprietario di una azienda vinicola come si dice prestigiosa, la San Leonardo. Ha l’aria un po’ perplessa mentra dispensa i baciamano anche a una giornalista di Forbes che gli fa stalking tutto il tempo. “Certo pensavo che fosse una cosa un po’ più raccolta, insomma si stesse un po’ più tra noi, per questo ho messo anche la croce dell’Ordine”, dice il marchese indicando la piccola crocetta di Malta sul bavero del paltò blu-presidenziale. Il marchese sperava insomma nell’udienza privata, e forse anche la signora in mantiglia, mentre qui si è all’udienza del Generone globale, dunque non ci siamo solo noi del Bilderberg del Vino, ma anche, come poi diranno dal palco i cardinali-supporter prima dell’omelia: la Parrocchia di San Paolo in Pagliate; pellegrini da Santa Maria del Pozzo in Capurso; da San Giovanni Battista in Siniscola; un Gruppo Unitalsi del Triveneto; una Cooperativa Il Timoniere di Mesola; una rappresentanza della regione Calabria; poi la parrocchia San Sulpice di Parigi; pellegrini di San Juan de Murcia; di Maestro Domingo de Badajoz (Spagna), poi vari messicani e argentini, un gruppo di adolescenti neozelandesi in maniche corte, particolarmente molesti, un po’ aborigeni. Infine (un po’ di chic) una delegazione dell’Istituto Massimo di Roma, dove hanno studiato Draghi e Montezemolo. Ma anche un gruppo dei vigili urbani di Milano, l’Associazione Traumi cranici Toscana e gli Amici di Gesù di Bari.

 

Il marchese sospira. “Aveva ragione Piero, che è venuto in verde”, dice riferendosi all’altro marchese del vino, Piero Antinori, che furbamente si è sottratto al blu e si presenta invece sportivo con Husky color bosco e sciarpa. E Antinori, molto scafato, si sottrae anche al rito da gita scolastica: non è venuto in pullman e non ripartirà in pullman, si presenta invece con mezzi propri (vietatissimo dalle direttive del Bilderberg) e se ne va all’inglese, molto invidiato dagli altri cui tocca il mesto ritorno su su a Monte Mario, prima di tornare nelle proprie tenute e aziende agricole dopo la gita. Un terzo marchese, Nicolò Incisa della Rocchetta, signore del Sassicaia, forse è scappato oltretevere, bisognerà avvisare i genitori.

 

Intanto si aspetta, si è preso posto, in una fila anche molto lontana dal palco-altare, con uno schermo neanche tanto maxi che rimanda le immagini dell’attesa, e il concerto-udienza sembra non arrivare mai. I supporter-monsignori ogni tanto riscaldano la folla: “Il Santo Padre tra poco arriverà”, e qualche esagitato urla “Francesco uno di noi!”, e i neozelandesi in maniche corte si fomentano a vicenda e fanno la ola.

 

I signori del vino però democraticamente si accomodano sulle seggioline strette con un’aria tipo “va benissimo così, se non ci si adatta tra di noi”; c’è Bruno Vespa, signore del vino in proprio, che è venuto diligentemente in pullman, ha un trench blu e una misteriosa valigetta, tipo quella nucleare dei premier francesi; e tutti a domandarsi cosa mai conterrà; è scortato da un roccioso signore che si immaginava guardia del corpo e invece è poi Marcello Zaccagnini, signore del Cerasuolo d’Abruzzo. Vespa viene omaggiato da famigliole; una spigliata milanese pretende di selfarsi con lui con l’iPhone mentre il marito riprende tutto col suo iPad, mentre sull’altare-palco i cardinali danno le istruzioni in sette lingue (“facciamola vedere al signor Vespa, se gli è piaciuta”, e lui dice che sì, gli è piaciuta tantissimo). Si siede anche lui su una di queste 12.000 poltroncine di legno strette e rigide, tipo cinema parrocchiale. Sta lì buono buono, apre il suo di iPad e si mette a guardare dei rendering delle sue bottiglie, “Il bianco dei Vespa”, non ancora lanciate sul mercato e dunque segretissime.

 

C’è una vecchia diatriba tra lui e Massimo D’Alema, si dividono i servigi di Riccardo Cotarella, re degli enologi italici, oggi naturalmente presente; però D’Alema nella sua tenuta umbra ha importato – orrore – vitigni francesi, mentre Vespa fa il Primitivo di Manduria filologico nelle Puglie. Certo rimane questo birignao forse psicanalitico dei nomi: Vespa tra i suoi vini fa il Bruno dei Vespa, e un altro che si chiama Raccontami, come la serie di Rai1 con Massimo Ghini; D’Alema invece va più sul sofisticato-international style, e nella tenuta che si chiama La Madeleine produce uno spumante metodo classico che si chiama Nérosé, crasi tra pinot nero e rosé, che però a noi evoca una linea di lingerie un po’ di destra.Vespa comunque studia le sue bottiglie, ci sono diversi layout, glieli deve aver mandati uno stylist o designer, ci saranno dei professionisti che curano l’immagine delle bottiglie dei vip, si immagina, e Vespa dice cose tipo “uhm, però questo verde non mi convince”, e Zaccagnini gli dice che forse il tappo in quel modo neanche, e forse bisogna scegliere un altro pantone per l’etichetta, sembrano Valentino e Giammetti quando decidono le sfilate nel famoso documentario. Poi a un certo punto Vespa scompare, qualcuno sospetta che con tanta assiduità vaticana lo abbiano chiamato per spostarlo nelle file davanti, così vede qualcosa. Ma i signori del vino non dicono niente, sono molto signorili.

 

Intanto però la noia incombe, sotto la cupola di calcestruzzo: pare di stare in un aeroporto molto affollato in attesa dell’imbarco per qualche località estremamente chic. Dal palco, per rinfrancare gli animi, fanno un riepilogo francese, inglese, portoghese, spagnolo e tedesco di tutti i gruppi globali qui oggi, e a un certo punto tocca anche a noi, e quando un monsignore dice “Fondazione italiana sommelier”, noi facciamo uno “yeah” un po’ svogliato, di maniera, niente a che vedere con la ola dei neozelandesi qui accanto.

 

Si scambiano chiacchiere molto civili, anche: tipo Rotary di provincia, e tutti ti si presentano amabilmente, si scambiano numeri di telefono, e la mail; hanno tutti l’iPhone, anche settantacinquenni e ottantenni.

 

Maurizio Zanella, ras del Franciacorta, è contento perché quello bresciano sarà il vino ufficiale dell’Expo; e che la Rai finalmente farà una serie sui protagonisti del vino italiano (intanto scrive su WhatsApp ai suoi di correggere un refuso in un tweet aziendale). Una signora in tailleur nero e capello ramato, molto magra, con gioielli d’oro sobri, fa uno small talk con un signore milanese. Lui: “Son quattro mesi che ancora non hanno riparato le scale mobili della metro di fronte a casa mia”. E lei: “Ma non hai capito, ma scappa; da aprile in poi vien giù l’inferno, tra Expo e Fuorisalone. Vieni da me, ho diciotto stanze in Umbria, il posto non manca”. Un altro gruppo: “Sciare? Ma no, quest’anno a Campiglio poca neve. Poi siamo andati a Abu Dhabi, non abbiamo fatto in tempo”. Anche, discorsi su autovelox e multe per tornar su nelle proprie cantine di Soave e Lugana e Montalcino: “Io il Brennero lo faccio tutto a centottanta-centovanta”. “Sì, tanto i radar sono finti, occhio da Bologna in giù, che cominciano quelli veri”. Jacopo Biondi-Santi, ayatollah del Brunello, si lamenta invece che deve tornar su velocemente per questioni di tasse e di avvocati, è seccato.

 

Ci sono poi dei gruppetti molto uniti: una piccola Davos del bianco, un terzetto che sta sempre insieme composto da Francesca Planeta, Marina Cvetic, e Antonio Capaldo patron dei Feudi di San Gregorio. Verrebbe da abbracciarli, quante serate e anche pomeriggi ci hanno risolto. La giornalista di Forbes prende numeri di telefono e e-mail, si scopre che è una importantissima, tipo corrispondente globale del prosecco. Si scopre che tra noi ci sono anche il presidente degli enologi italiani, e quello degli enologi mondiali. E il direttore del Tg2 Marcello Masi. Un produttore molto laico: “Ci dessero piuttosto una bella benedizione contro il maltempo”, che quest’anno tanti hanno saltato la vendemmia.

 

Però che palle. Finalmente, ecco tutto uno stormir di braccetti di selfie, tutti si accalcano sulla passerella centrale che separa le due navate di questo palasport cristiano; una massaia tecnologica americana grassa davanti a noi attiva il suo smartphone per il countdown sul braccetto, e poi lo issa, col telefonone che fa: nove-otto-sette-sei-cinque… e tra il conto alla rovescia e le architetture spaziali, ci si aspetta di veder decollare uno Shuttle. Invece dubbi: ma Francesco uscirà da dietro, o da davanti? E i più audaci tra i signori del vino si alzano sulle poltroncine punitive, e poi ecco che arriva lui: è Francesco! Passa lentamente per la corsia centrale accompagnato dal prefetto della Casa Pontificia, monsignor Georg Gänswein, dà qualche mano, poi trotterella sul palco. Sembra basso.

 

[**Video_box_2**]Sul palco, altra grande delusione del povero cronista alle prese con nuovi riti. L’udienza del Papa, come le sfilate di moda, dura pochissimo. Dieci minuti, un quarto d’ora al massimo, in cui Francesco fondamentalmente corregge il tiro sulla cosa dei cristiani conigli: e dice che insomma va bene farli, i figli, e che la povertà è figlia del capitalismo, non delle famiglie numerose (e lì, battute cheap: ma quanto vino aveva bevuto sull’aereo?). Poi basta: è già finito, e a differenza delle sfilate, l’omelia del Papa, oltre a non aver la musica, vien ripetuta dall’inizio alla fine in sette lingue, tradotta dai monsignori supporter fluentissimi: e davvero è una delle cose meno mistiche cui si sia mai assistito, con questa elencazione meno emozionante degli annunci disturbanti sulle Freccerosse, che pregano di non disturbare. Solo il Pater noster finale in latino scandito dal Papa live muove un po’ gli animi, e però lì la poesia svanisce subito, perché al momento del segno della croce finale tutti, famigliole, adolescenti neozelandesi, sposine novelle, vigili urbani milanesi, e financo i signori del vino stanno postando le loro foto, chi su Instagram, chi su Facebook, chi su Twitter, e il segno della Croce si fa con lo smartphone in mano, e dopo il Padre e il Figlio, quando si arriva allo Spirito Santo tutti premono insieme il tasto “invia”.

 

Il professor Attilio Scienza però non ci sta. Il professor Scienza, molto riverito, accademico dei Georgofili e docente di Viticoltura alla Statale di Milano, tira fuori un Nokia coi tasti rotti, se ne vanta, lo mostra ai colleghi del vino tutti iphonati, e “questi non vedono niente, non hanno visto neanche il Papa, stan lì tutto il giorno a far foto e a mandarle a non si sa chi”. Accanto a lui Giovanni Negri, ex segretario del Partito Radicale, ex eurodeputato, ora vignaiolo in Piemonte e scrittore molto di nicchia: ha inventato l’eno-giallo. Dopo i successi di “Il sangue di Montalcino” (Einaudi), una specie di “Nome della Rosa” ambientato tra le barrique, adesso sta uscendo il suo nuovo thriller, “Il vigneto Da Vinci”, Piemme, un giallo che parte dalla misteriosa vigna milanese di Leonardo, per dipanarsi tra rapimenti, ammazzamenti, labirinti, tutto ambientato nella Milano dell’Expo. Mah.

 

Mentre la noia riprende il sopravvento, Francesco scende dal palco e riprende la passerella centrale. Qui subito una pattuglia si stacca dal gruppone: è la Triplice dei signori del vino: Franco Maria Ricci, insieme al sommo enologo Cotarella, e Angelo Gaja, guru del Barbaresco, scompaiono, e mentre il Papa, finito di sentire la replica del suo discorso in tutte le lingue del mondo, scende giù, mentre i neozelandesi ricominciano a far la ola, la Triplice si avvicina al sacro passaggio. Consegnano a Francesco il diploma di Sommelier d’onore, e una cassa di vino speciale preparato dall’associazione (un cabernet sauvignon più merlot, del Lazio, annata 2010). Cotarella chiede a Sua Santità se sia vero che beve solo il Mate, e l’incolpevole Pontefice risponde che no, gli piace il vino, però con molta moderazione. Con Angelo Gaja parlottano invece un po’ di Piemonte, da cui arriva anche la famiglia Bergoglio. Poi il Papa ricomincia a stringere mani, ma già la massa si sposta ondeggiando verso l’uscita.

 

Anche lì, una coda tremenda, e come nelle gite scolastiche, c’è un momento di stanchezza. Il marchese Guerrieri-Gonzaga è un po’ stufo. “Che fame, che fame. Pensavo ci fosse almeno un rinfresco”, sussurra. E un po’ rimpiange certi riti del passato. “Certo, Paolo VI ha smantellato tutta la Corte pontificia, anche giusto, per carità. E Bergoglio fa bene a rinunciare alla pompa. Però, però… Una volta era un’altra cosa”. Poi confessa d’essere stato battezzato da Pio XII in persona. E si capisce: altri tempi, altri gesti. Intanto dietro di noi sfilano fuori dal palasport i nostri giovani sommelier: alti, diritti, col loro frac d’ordinanza, e lo sparato bianco. Sembrano davvero gentiluomini di Sua Santità, e il taste-vin dorato da lontano pare proprio il collare con le croci di San Pietro.

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