Una parata delle truppe sciite a Baghdad (foto LaPresse)

Lo stato della guerra

“Bang bang” urlano i soldati iracheni, perché non ci sono le armi

Redazione

Ieri a Londra si sono incontrati Kerry e i membri della coalizione contro il Califfato. Serviranno ancora un paio d’anni di bombardamenti, ha detto il ministro degli Esteri inglese, mentre l’esercito iracheno si addestra senza pistole. Il piano di pace russo disertato dall’opposizione siriana.

Bombe, munizioni, obiettivi. Questo mese il Pentagono ha diffuso un report dettagliato sugli obiettivi colpiti dagli strike della coalizione a guida americana contro lo Stato islamico in Siria e Iraq. Tra l’8 agosto, data dell’inizio della missione Inherent Resolve, e il 6 gennaio sono stati fatti 1.676 strike aerei (che ormai hanno superato i 1.700), sono state usate 4.775 bombe e sono stati colpiti 3.222 obiettivi. Il portavoce del Pentagono, Steve Warren, non ha voluto dire che percentuale dell’equipaggiamento dello Stato islamico si stima sia stata distrutta negli strike, ma ha rilasciato una lista dettagliata degli obiettivi colpiti. Ci sono 58 carri armati, 184 veicoli blindati Humvee (Warren ha detto che gli Humvee erano quelli dati dagli americani in dotazione all’esercito iracheno, e finiti nelle mani dello Stato islamico dopo la fuga dei soldati di Baghdad), 673 “postazioni di combattimento”, 980 edifici, 79 postazioni di artiglieria, e così via. Nell’elenco degli obiettivi distrutti vi sono anche 259 siti di infrastrutture petrolifere, ma un precedente report del Central Command ha riferito che sono state colpite solo “piccole” raffinerie. Una statistica separata compilata dall’U.S. Institute for Peace ha stimato che nel corso del 2014 la coalizione ha fatto 841 strike in Iraq e 559 in Siria. Nello specifico, secondo l’Institute for Peace, dei 559 strike in Siria solo 21 sono stati fatti contro la città di Aleppo, e 428 sulla città curda di Kobane, al confine con la Turchia. E’ il 76,6 per cento di tutti gli attacchi fatti nel paese.

 

L’errore di Kobane. Lo scorso ottobre, mentre lo Stato islamico attaccava la piccola enclave curda di Kobane, dove prima del conflitto abitavano circa 40 mila persone, il segretario di stato americano John Kerry disse che “Kobane non è un obiettivo strategico per l’America”. Oggi su Kobane si abbatte la buona parte degli strike della coalizione e le milizie curde hanno recuperato alcuni quartieri strategici della cittadina. A metà gennaio l’Osservatorio siriano per i diritti umani ha stimato che 1.607 persone sono morte nella battaglia per Kobane, di cui 1.091 militanti dello Stato islamico, 462 guerriglieri curdi e 32 civili. Kobane, in mezzo a una piana che espone gli aggressori agli attacchi aerei, ha scarso valore militare per lo Stato islamico, che possiede già altre postazioni sul confine turco, e l’intestardirsi contro la cittadina può essere considerato un errore strategico per le milizie del Califfato. Molti miliziani di alto rango, soprattutto “foreign fighters” dal Maghreb e dall’Europa, sono già morti nel tentativo di prendere la città.

 

Chi arretra e chi avanza. Kobane è uno dei pochi luoghi della Siria dove l’intervento della coalizione sta avendo effetti immediati. Mercoledì scorso il Wall Street Journal, sentendo esperti indipendenti e fonti dell’Amministrazione, ha scritto che lo Stato islamico guadagna terreno in Siria (e ha mostrato una cartina in cui da agosto le conquiste del Califfato sembrano più che raddoppiate), soprattutto ai danni dei ribelli. “La strategia americana”, scrive il Wsj, “rimane concentrata sull’espulsione delle forze dello Stato islamico dall’Iraq”, dove i miliziani si sono ritirati in diverse aree. Ma anche in Iraq, ha scritto Martin Chulov sul Guardian, il fallimento del processo di riconciliazione politica mette a rischio i risultati ottenuti.

 

Kerry e i ministri a Londra. Ieri i rappresentanti di 21 dei 60 paesi che compongono la coalizione internazionale contro lo Stato islamico si sono incontrati a Londra. E’ il primo meeting dopo gli attacchi jihadisti a Parigi, e uno dei temi principali sono state le strategie per affrontare i “foreign fighters” (5.000 quelli di origine europea, stima l’Europol) che si arruolano nello Stato islamico. Il segretario di stato americano John Kerry ha detto che sconfiggere il Califfato è “un’impresa enorme e senza scorciatoie. Abbiamo fatto progressi e continueremo a farne”. Il ministro degli Esteri inglese Philip Hammond ha detto prima del meeting che la coalizione avrà bisogno di “uno, due anni” per sloggiare i miliziani dall’Iraq, mentre l’esercito iracheno non sarà in grado di fare “vere operazioni di combattimento” ancora per mesi.

 

“Bang bang”. L’America ha inviato circa 1.800 “advisor” per addestrare l’esercito iracheno in rotta e aiutare i militari nei combattimenti, e conta di fare arrivare il numero a 3.000. L’addestramento, ha comunicato il Pentagono, è iniziato alla fine di dicembre in due basi, quella di Ayn al Asad nella provincia occidentale di Anbar e quella di Taji, 30 chilometri a nord di Baghdad. Ma rispetto ai tempi dell’ultima guerra in Iraq molte cose sono cambiate. Gli addestratori devono fare affidamento sulla logistica terribile dello stato iracheno e sul suo equipaggiamento carente: a Taji, scrive il Washington Post, i soldati devono urlare “bang bang” durante le esercitazioni perché non ci sono armi a sufficienza.

 

[**Video_box_2**]L’ostacolo di Erdogan. Durante il meeting di Londra si è parlato anche di espandere le operazioni aeree, ma almeno per quanto riguarda gli strike in Siria l’Amministrazione americana continua a trovare nella Turchia, e nel suo rifiuto di concedere le basi militari per i voli, un ostacolo. Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan vorrebbe che gli strike si concentrassero su Aleppo, dove resiste una piccola enclave di ribelli, e contro il regime siriano di Bashar el Assad, piuttosto che nel nord del paese e nella zona di Kobane.

 

La pace di Ginevra e quella di Putin. Questa settimana l’Onu ha iniziato un nuovo round di dialogo con il governo siriano di Bashar el Assad per ottenere un cessate il fuoco intorno ad Aleppo. E’ il primo tentativo di pace fatto dall’Onu dopo il fallimento delle due conferenze di Ginevra lo scorso anno. Intanto si prepara per lunedì prossimo una inedita conferenza di pace sulla Siria a Mosca, uno degli alleati chiave di Assad nel corso del conflitto. Partecipa il governo siriano, non partecipa la stragrande maggioranza dell’opposizione. Il piano russo è di creare una commissione di transizione che comprenda anche Assad, che per occidente e ribelli “must go” (ma l’America ci sta ripensando). L’influente viceministro Bogdanov si è mosso durante dicembre per preparare il terreno agli incontri, ma il moderatore Vitaly Naumkin ha detto che i colloqui saranno un successo anche solo se le due parti si accorderanno per incontrarsi di nuovo.

 

Ieri il Central Command americano ha fornito per la prima volta dall’inizio delle operazioni militari una stima dei miliziani dello Stato islamico uccisi dagli strike: sarebbero circa 6.000. I militari hanno anche stimato che metà della “core leadership” del Califfato sarebbe stata eliminata. Il segretario della difesa Chuck Hagel ha detto che la cifra non è stata verificata.

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