Un murales che ritrae Angela Merkel e Mario Draghi a Francoforte, non lontano dalla sede della Bce (foto LaPresse)

Svolta anti deflazione

E' il giorno del bazooka di Draghi (e di altri dubbi esistenziali sull'euro)

Marco Valerio Lo Prete

Il compromesso con i falchi della Bce e i rischi di un Qe “diseguale”. I due euro partono da Berlino o da Atene?

Atene. Ieri, alla vigilia della riunione della Banca centrale europea nella quale oggi dovrebbe essere ufficializzato il lancio del Quantitative easing (o allentamento quantitativo), non c’era più un singolo indizio che non fosse stato passato al setaccio dagli analisti. E tutto per capire se la svolta “americana” della Bce sarà davvero della portata sufficiente a contrastare il vento deflazionistico che spira sull’Eurozona partendo da sud. I prezzi al ribasso infatti, uniti a una crescita poco briosa per usare un eufemismo, costituiscono una ricetta letale. Secondo fonti di Francoforte sentite dal Foglio, non deve passare in secondo piano nemmeno il fatto che quella di oggi sarà la prima riunione di politica monetaria del Consiglio direttivo della Bce di cui, tra quattro settimane, verrà pubblicato un resonto ufficiale. Tanta futura pubblicità – ricordano le fonti – potrebbe fornire un incentivo ad alcuni governatori delle Banche centrali (Bundesbank in testa, ma non solo) a esaltare il loro dissenso per poi vederlo certificato agli occhi delle rispettive opinioni pubbliche nazionali. D’altronde è innegabile il confronto politico in corso nelle stanze dell’Eurotower e pure fuori dalle stesse. Ieri per esempio la cancelliera tedesca, Angela Merkel, prima ci ha tenuto a sottolineare che la Bce non ha preso ancora alcuna decisione formale sull’acquisto di titoli di stato su larga scala (il Quantitative easing, appunto), poi ha aggiunto che comunque “questa mossa non deve  rappresentare un alibi per i paesi europei per minimizzare lo sforzo sulle riforme”. Intanto Matteo Renzi, dal World economic forum di Davos, usava toni di segno opposto: “Io rispetto l’indipendenza della Bce, ma la Banca deve dare un nuovo messaggio all’Europa”.

 

Il contenuto operativo del messaggio l’ha anticipato ieri Bloomberg: “Il Comitato esecutivo della Bce ha proposto (al Consiglio direttivo di oggi allargato a tutti i governatori, ndr) Quantitative easing per 50 miliardi di euro al mese fino alla fine del 2016”. Le indiscrezioni del Wall Street Journal differivano solo sulla durata dell’operazione: “Per almeno un anno”. Oggi si vedrà se ci hanno preso. Per certo il tentativo di Draghi è quello di convincere i mercati della volontà della Bce di riavvicinare il tasso d’inflazione dell’Eurozona al 2 per cento, e di sostenere l’economia innanzitutto abbassando ancora il cambio dell’euro con le altre valute (visto che i rendimenti dei titoli di stato già sono a livelli storicamente bassi). Anche sul contenuto politico del messaggio la discussione è ancora aperta. La Bundesbank avrebbe ottenuto che gli acquisti, perlomeno in parte, saranno compiuti dalle Banche centrali dei diversi paesi che quindi si accolleranno eventuali rischi di credito. Il contribuente tedesco così sarebbe salvo dalla tanto temuta mutualizzazione di rischi e debiti. Una mossa criticata preventivamente da Ignazio Visco, governatore della Banca d’Italia, secondo cui “il rischio dovrebbe essere condiviso dall’Eurosistema nel suo insieme”. Anche osservatori esterni, come l’economista Athanasios Orphanides (ex consigliere della Bce e poi advisor della Fed), dicono che tale compromesso “non equivarrebbe a promuovere una politica monetaria comune”. Non a caso in queste ore si torna a discutere dell’insostenibilità dell’euro (lo ha fatto l’ex presidente della Bundesbank, Axel Weber) e perfino dell’ipotesi di una sua separazione più o meno consensuale tra un euro forte per il nord e un euro debole per il sud. Una politica monetaria a macchia di leopardo sarebbe il degno antipasto di tale scenario che non dispiace pure ad alcuni circoli tedeschi. Soprattutto in Grecia si registra notevole apprensione attorno all’ipotesi.

 

Lo scenario dei due euro torna d’attualità specialmente alla luce di quanto potrebbe accadere in Grecia, dove domenica si terranno le elezioni nazionali. Il quotidiano Kathimerini ha citato fonti del ministero dell’Economia di Atene secondo cui un’eventuale esclusione dei titoli di stato greci da quelli che la Bce acquisterà equivarrebbe a “un’uscita di fatto del paese dall’euro”. I media tedeschi di recente avevano fatto trapelare l’indiscrezione secondo cui Draghi non intende includere i bond greci tra quelli acquistabili perché hanno un rating a livello spazzatura. Tre le considerazioni attribuite al governo uscente di Atene: sarebbe la prima volta in cui il paese più colpito dalla crisi non beneficerebbe di una scelta della Bce; in secondo luogo, sarebbe smentita la convinzione che fare parte di un programma di aiuti della Troika costituisce sempre e comunque un salvacondotto; infine, verrebbe a crearsi un mercato di titoli di stato su due livelli differenti, con quelli greci che hanno rendimenti vicini al 10 per cento, e tutti gli altri verosimilmente compressi verso il 2. 

 

Alexis Tsipras, il leader quarantenne del partito di sinistra radicale Syriza che è dato per favorito alle urne, finora si è sempre detto convinto che l’esclusione sarebbe inconcepibile. Si è spinto così in là nel suo sostegno verbale a Draghi, da cercare d’incastrare il leader conservatore Antonis Samaras chiedendogli se anche lui condivida lo scetticismo della Merkel sul Qe. Oggi, nel giorno annunciato del bazooka anti deflazione, potrebbe essere deluso dal banchiere centrale italiano? Kostas Vergopoulos, professore all’Università di Parigi VIII e simpatizzante di Syriza, è convinto che quello dei media tedeschi sia soltanto un depistaggio: “Non solo la Grecia è ancora ufficialmente sotto programma della Troika. E’ anche all’avanguardia dell’Eurozona nel suo cammino in terreno deflazionistico – dice con un filo d’ironia al Foglio – Come potranno escluderci?”.

 

[**Video_box_2**]Miranda Xafa, fellow del think tank canadese Center for international governance innovation (Cigi) e consulente ad Atene di fondi privati internazionali, ragiona su altri effetti che le scelte della Bce avranno comunque sul settore del credito del paese: “Le banche elleniche prima della crisi erano 18. Oggi, dopo un robusto consolidamento, ne sono rimaste solo quattro – premette intervistata dal Foglio ad Atene – Queste quattro banche sono state ricapitalizzate ma i non-performing loans ricominciano ad aumentare se la crescita latita sulla scorta di riforme che potrebbero rallentare con il nuovo governo. Al momento gli istituti lamentano soltanto un problema di liquidità, dovuto all’assottigliarsi dei depositi, e per questo hanno chiesto preventivamente l’accesso a una linea di liquidità d’emergenza (l’Ela, ndr) gestita dalla Banca centrale nazionale ma supervisionata da Francoforte. Da marzo però la Bce ha già fatto sapere che non accetterà più asset greci come collaterale per operazioni di rifinanziamento, se il paese non sarà all’interno di un programma. Inoltre non accetterà asset garantiti soltanto dallo stato greco per fornire liquidità alle banche. A quel punto ai problemi di liquidità potrebbero tornare a sommarsi carenze di capitale”. Senza contare, osservano altri analisti, che la Bce regola anche l’ammontare massimo di titoli a breve (T-Bill) che Atene, dal 2010 tagliata fuori dal mercato dei capitali privati, può emettere per finanziare esigenze stringenti di autofinanziamento. In definitiva, ogni indizio odierno di un comportamento differenziato di Draghi rispetto alla Grecia potrebbe complicare i rapporti tra Banca centrale e Atene.

 

In questo quadro di grandi speranze per le mosse anti deflazione ma di terribili dubbi esistenziali sull’euro, ieri spiccava un cauto ottimismo da parte di Erik Nielsen, Global chief economist della banca italiana Unicredit. Riservandosi di valutare entità, durata e tecnicalità del Qe dopo la conferenza stampa di oggi, Nielsen in un report per i clienti ha osservato che il dibattito sulla “condivisione del rischio di credito” dei titoli acquistati dalla Bce è di fatto inutile. Se un paese facesse default, con annessa perdita di valore dei propri titoli acquistati dalla propria Banca centrale nazionale, le passività di bilancio – secondo lo statuto della Bce – rimarrebbero comunque delle Banche centrali dell’Eurosistema nel loro complesso. Ma se anche questo dibattito fosse servito soltanto a placare la Bundesbank, per Draghi non sarebbe stato tempo perso.