Quarant’anni di instancabile “decostruzione gioiosa, sapiente e ostinata dei più piccoli ingranaggi che avevano edificato la Francia”

Il mal francese

Nicoletta Tiliacos

La patria della libertà alle prese con la sottomissione. Il disastro delle politiche di integrazione multiculturale, cattivi umori di un popolo pieno di non-Charlie. Il malato d’Europa, affetto da grandeur velleitaria che copre crisi economica e divisioni crescenti, tra jihadismo e lepenismo.

Dopo la grande marcia repubblicana contro il terrorismo, dopo la “Marsigliese” cantata in piedi da tutti i deputati dell’Assemblea nazionale, dopo le dichiarazioni solenni del premier Manuel Valls (“La Francia è in guerra contro il terrorismo, il jihadismo e l’islamismo radicale… ma non contro una religione”), dopo la corsa alle edicole per testimoniare sostegno a Charlie Hebdo, la Francia si sveglia ogni giorno un po’ meno Charlie di quanto tutti quei segnali non autorizzerebbero a credere. Le docce fredde arrivano soprattutto dalle scuole – sì, proprio le scuole oggetto delle solerti attenzioni egalitariste e genderiste degli ultimi ministri dell’Education nationale – dove sono centinaia i casi di dissenso e di disturbo, spesso diventati veri e propri incidenti, in occasione del minuto di silenzio per le vittime degli attentati parigini del 7 e dell’8 gennaio. Per trentasette episodi (stima molto provvisoria) si parla di apologia di terrorismo – lo stesso reato che ha portato al fermo del comico antisemita Dieudonné, dopo che ha scritto “Je suis Charlie Coulibaly” su Facebook e si è dimostrato che per lui la liberté deve avere qualche limite – e, in un’altra ventina di casi, di semplici “minacce verbali di azioni terroristiche”.

 

Non tutti in Francia, dunque, sono Charlie. Soprattutto non lo sono molti giovani e giovanissimi musulmani, immigrati di terza generazione e cittadini francesi come i fratelli Kouachi e Amedy Coulibaly. Ma che cos’è, oggi, la Francia? E’ davvero il “malato d’Europa”, come da qualche anno si va argomentando, dentro e fuori il paese? E’ davvero diventata un guscio di grandeur velleitaria che copre sempre più precariamente le fragilità economiche crescenti, le divisioni profondissime nella società, l’incapacità di tenere insieme tradizione e futuro, banlieue incubatrici di islamismo jihadista e Front national che minaccia l’uscita dall’euro? Come è successo che il paese dei diritti dell’uomo si sia svegliato un giorno trasformato nella prima nazione europea dalla quale gli ebrei emigrano verso Israele? E perché nella patria dei Lumi ha trovato tanto spazio ed è diventata cupissima realtà quella “tentazione antisemita” di cui parlava il sociologo e storico Michel Wieviorka dopo un’inchiesta condotta all’inizio degli anni Duemila nelle prigioni, nelle università e nelle scuole di  Roubaix, di Sarcelles, di Marsiglia?

 

A queste domande, c’è chi sta dando risposte molto nette e piuttosto impressionanti, considerate oggi. C’è stato il filosofo Alain Finkielkraut, che con  “L’identité malheureuse” (Stock), cioè “l’identità infelice”, ha raccontato la sonora sconfitta del multiculturalismo alla francese. Uno scacco al quale il paese si è condannato per aver voluto abbandonare la sua originale via assimilazionista: “Ora è in corso una rivoluzione imposta dall’islam e dalla sinistra benpensante – aveva spiegato Finkielkraut all’uscita del suo pamphlet, intervistato per il Foglio da Giulio Meotti –  quella parte della sinistra che ho chiamato ‘gauche divine’, sinistra divina. E’ il paradosso della gauche che, in nome della laïcité, decostruisce il repubblicanesimo e abbraccia il multiculturalismo. E’ una ‘dis-identificazione’… e per la prima volta nella storia dell’immigrazione, l’ospite rifiuta di essere accettato… Sotto il principio della ‘non discriminazione’, la Francia sprofonda voluttuosamente nell’indifferenziato”. Il peggior peccato, in questa nuova Francia, è diventato l’“islamofobia”, parola che, aggiungeva Finkielkraut, “sottomette la Repubblica alle leggi islamiche, a un’idea di coesistenza dei sessi basata sulla separazione”. Per quel suo libro, Finkielkraut è stato accusato di essere un fiancheggiarore della demonizzata Marine Le Pen, la leader del Front national che dal governo Valls è stata bollata come indesiderabile alla “marche républicaine” di domenica scorsa (un autogol per Valls, secondo la quasi totalità degli osservatori, anche quelli che non simpatizzano affatto per il Fn).

 

Ancora più urticante di quella di Finkielkraut è la versione di Eric Zemmour, scrittore e giornalista considerato il vero campione del politicamente scorretto, anche per le sue prese di posizione contro la “femminilizzazione” della società francese. Con “Le suicide français” (Albin Michel), uscito nello scorso ottobre, Zemmour ha venduto più di mezzo milione di copie, a dispetto del fatto che il primo ministro Valls lo aveva bollato in modo sprezzante come “il libro che non leggerò mai”. Zemmour, congedato senza molti complimenti dalla catena televisiva di cui da dieci anni era opinionista, perché accusato di aver sollecitato la “deportazione” dei musulmani francesi (accusa da lui respinta), è ora sotto protezione per le minacce degli islamisti. E’ stato costretto a rinunciare a tutte le iniziative pubbliche, esattamente come sta accadendo al romanziere Michel Houellebecq dopo l’uscita di “Sottomissione” (da ieri anche nelle librerie italiane, edito da Bompiani), nel quale si racconta un’ipotetica Francia del 2022 totalmente islamizzata, a partire dal titolare dell’Eliseo, un ex professore universitario convertito alla fede maomettana.

 

Se quella di Houellebecq è fiction (pericolosa quanto la realtà, visto che il giorno dell’uscita del romanzo è lo stesso scelto per la strage nella redazione di Charlie Hebdo, che aveva proprio Houellebecq in copertina), per Zemmour l’Esagono è già da tempo diventato una “République-Potëmkin”, grazie a quarant’anni di instancabile “decostruzione gioiosa, sapiente e ostinata dei più piccoli ingranaggi che avevano edificato la Francia”.   Dal 1970 in poi ha vinto nei fatti, e soprattutto nella loro interpretazione, il maggio Sessantotto, e con esso ha vinto “la Società a detrimento del Popolo”. Scrive Zemmour nel “Suicide français”: “Coniughiamo un maggio 1940 economico (nel maggio del ’40 la Germania nazista cominciò l’invasione della Francia, ndr) e una guerra di religione in gestazione. Abbiamo abolito le frontiere, rinunciato alla nostra sovranità e le nostre élite politiche hanno proibito all’Europa di riferirsi alle sue radici cristiane. Una triplice apostasia che ha distrutto il patto millenario della Francia con la propria storia”. Questa diagnosi estrema è costata al suo autore il violento ostracismo della gauche, la cui punta estrema è oggi rappresentata soprattutto dal sito Mediapart, creato nel 2008 da quella sorta di Marco Travaglio in salsa francese, ma colto, che si chiama  Edwy Plenel, ex giornalista del Monde rocciosamente schierato sul versante che vede nel passato coloniale della Francia qualcosa di cui non si dovrà mai smettere di fare ammenda (al contrario di Zemmour, figlio di ebrei algerini emigrati in Francia allo scoppio della guerra d’indipendenza e dichiaratemente “fiero di essere stato colonizzato”).

 

Una Francia più grande e ambiziosa di coloro che la governano, plasmata da De Gaulle a sua immagine e somiglianza e destinata a essere miseramente interpretata da chi non ha né la statura né la determinazione per farlo: è un’altra delle versioni correnti della natura della crisi di identità francese. L’economista Jean Pisani-Ferry scriveva sul Sole 24 Ore, a luglio, di un paese “incerto sulle scelte di fondo. La società è divisa sulla propria identità, sul modello sociale, sull’atteggiamento verso la globalizzazione, sulla posizione in Europa e sulla crescita economica in sé. I cittadini non si fidano delle istituzioni e dei leader”. Può sembrare superfluo o ingeneroso, a questo punto, ricordare certe recenti disavventure di sostanza e di immagine, viranti alla pochade, di personaggi come Dominique Strauss-Kahn e dello stesso François Hollande: il presidente francese con il più basso indice di gradimento di sempre, risalito di poco o nulla anche dopo il grande abbraccio repubblicano “après Charlie Hebdo”. Ingeneroso ma necessario, per capire meglio il disagio di un paese i cui cittadini si rivelano i più pessimisti d’Europa (visti i fatti, forse hanno ragione).

 

Marcel Gauchet, storico liberale delle religioni, allievo di François Furet e fondatore del Centre Raymond Aron, ha riassunto la questione scrivendo che “la nostra eredità ci rende inadatti a un mondo che svaluta quello a cui siamo naturalmente portati a dare valore, e che porta in primo piano quello che noi guardiamo dall’alto in basso”.  Detta così, non sembra ci sia speranza. Ma un competente osservatore italiano dei fatti francesi, lo storico ed ex ambasciatore Sergio Romano (autore agli inizi degli anni Ottanta del saggio “La Francia dal 1870 ai nostri giorni”, Mondadori), dice che il tiro al bersaglio sulla Francia non gli piace nemmeno un po’: “Dobbiamo renderci conto che la Francia deve affrontare in questo momento problemi molto più grandi di ogni altro paese europeo, perché è loro la più grossa comunità islamica europea, a parte quella russa. E hanno voluto trattarla in piena coerenza con i loro princìpi, con quella  che ritenevano fosse l’identità civile e culturale del paese, accordando con generosità e prontezza una cittadinanza che altrove – in Germania ma soprattutto in Gran Bretagna – è stata gestita in modo assai più avaro e tormentato. In Italia si continua a dare la cittadinanza con il contagocce, in Francia non è così. Anche quelli che oggi si condannano come ‘ghetti’, nelle intenzioni originali erano il risultato di un atteggiamento previdente, che doveva evitare problemi come quelli che, in Italia, si sono manifestati nel quartiere torinese di San Salvario”. Per capire che cosa è andato storto, aggiunge Sergio Romano, “dobbiamo guardare piuttosto alle ambizioni francesi, alla loro volontà di non rinunciare a una presenza in Africa. Le loro ricorrenti operazioni africane che spesso hanno avuto il significato di andare a caccia di guai. Ma faccio fatica a parlar male dei francesi, anche se ora prestano il fianco alle critiche. A partire dal loro attuale leader, così grigio ma pur sempre meglio del predecessore Sarkozy: Hollande non avrebbe mai fatto l’errore commesso in Libia”. 

 

La Francia ha puntato sull’égalité assoluta, sull’azzeramento di ogni differenza, sulla sterilizzazione di qualsiasi identità, facendo piazza pulita di ogni segno esteriore della religione. Nell’ordinamento francese non esiste il reato di vilipendio dei luoghi di culto, per esempio, motivo per cui la Femen mezza nuda che ha mimato un aborto nella chiesa della Madeleine, buttando fegatelli sanguinolenti sull’altare di fronte ai fedeli, urlando che si trattava di “Gesù Cristo abortito”, se l’è cavata con una modesta multa, contro cui ha fatto ricorso. Una versione della laïcité che oggi si è scoperta fragilissima rispetto all’islam: “I francesi hanno continuato a operare in questo campo con strumenti che in passato si erano dimostrati efficaci, in un contesto che stava cambiando, ma non necessariamente per colpa loro. Erano stati bravissimi ad assimilare le comunità straniere nel periodo precedente alla Prima guerra mondiale e nell’immediato Dopoguerra: polacchi, italiani, spagnoli, portoghesi. E anche dopo la Seconda guerra mondiale quelle regole avevano funzionato. Si raccontava, e non è una barzelletta, di ragazzi neri arrivati dall’Africa che parlavano del loro ‘antenato Vercingetorige’. I francesi erano orgogliosi di quella ricetta, che hanno cercato di applicare poi alla comunità araba. La quale stava però cambiando le regole del gioco, e non necessariamente per colpa dei francesi. Se gli americani vanno in Iraq e in Afghanistan e fanno di quei paesi un luogo dove si addestra personale militare per la guerriglia, e se falliscono gli stati islamici, compresi quelli che cercavano di copiare l’occidente, non deve sorprendere che diventi più difficilmente trattabile con la precedente ricetta la comunità arabo-musulmana di Francia (la più grande d’Europa, lo ripeto)”. Sergio Romano ricorda la genesi, quindici anni fa, della famosa “legge sul velo”, che in Francia ha vietato tutti i segni esterni di appartenenza religiosa (il velo come la kippah e come la croce “ostentata”): “Giusto? Sbagliato? Sta di fatto che le scuole sono palestre di identità dove si vanno a saldare i conti, e quello è stato una tentativo di pacificazione”. Un altro fattore che ha cambiato il quadro “è che siamo in recessione. Una situazione che colpisce le fasce più umili di popolazione e nella quale  circola veleno, crescono rancori sociali e invidie. Tutto diventa più complicato, e vale anche per la Francia. Ma mettiamoci nei panni di un paese orgoglioso e ideologico come quello, che ha scelto il principio di laicità come vera religione dello stato. Stiamo certo assistendo a un progressivo declino della Francia, ma dobbiamo almeno constatare che, visto che se ne parla da almeno trent’anni, è piuttosto lento e non privo di una certa nobiltà”.

 

Ma in Francia in questi ultimi anni è successo anche altro. Uno degli esiti della versione postmoderna dell’égalité è stato il “mariage pour tous”, la legge sul matrimonio tra persone dello stesso sesso che porta la firma della Guardasigilli Christiane Taubira. Un provvedimento che ha spaccato il paese e che andava a perfezionare in modo squisitamente ideologico – nell’assoluta indifferenziazione imposta a ciò che è differente – di quello che i patti civili di solidarietà (invenzione francese, peraltro) già da tempo garantivano. La risposta è stata la Manif pour tous e il movimento dei Veilleurs. I quali, per dirla con le parole di Tugdual Derville (uno dei portavoce della Mpt, intervistato dal mensile online italiano RossoPorpora) sono nati in Francia proprio perché si tratta di un paese “particolarmente provato dalla rivoluzione liberal-libertaria del 1968”. La legge sulle nozze gay ha scatenato un così vasto movimento di protesta “perché toccava qualcosa di molto intimo: il riferimento all’alterità sessuale nella generazione. In altre parole, il fondamento antropologico più radicato nella storia dell’umanità… La ‘maggioranza silenziosa’ ci è sempre stata vicina: regolarmente, nei sondaggi, più del cinquanta per cento dei francesi è risultato ostile all’adozione da parte di coppie omosessuali, anche dopo l’approvazione parlamentare della legge Taubira”.

 

[**Video_box_2**]Ecco un altro tema degno di essere affrontato, nell’anamnesi del “mal francese”. Qualcuno, con un paradosso, parla della Francia come di un paese di destra che vota a sinistra (sempre meno, a dire la verità). Lo spiega nel suo modo colorito il solito Zemmour nel “Suicide français”, quando nota che “il popolo… va alle mostre sugli impressionisti e rimane indifferente alle bellezze nascoste di un’arte contemporanea che seduce lo snobismo dei miliardari. Non ascolta che riedizioni delle canzoni degli anni Sessanta e Settanta. Fa di ‘Les Tontons flinguers’ un film di culto, canta le lodi di Louis de Funès… disdegna la maggior parte dei film francesi, appesantiti da un politicamente corretto di piombo, ma accorda il trionfo ai rari audaci che esaltano i valori aristocratici di ieri (‘Les Visiteurs’), la Parigi di ieri (‘Amélie Poulain’), la scuola di ieri (‘Les Choristes’), la classe operaria di ieri (‘Les Ch’tis’), la solidarietà di ieri (‘Intouchables’) e l’integrazione di ieri (‘Qu’est-ce qu’on a fait au bon Dieu?’). Ogni volta, la stampa di sinistra grida allo scandalo, alla mediocrità, al passatismo, alla xenofobia, al razzismo:  ma predica nel deserto”.

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