Il presidente americano Barack Obama (foto Reuters)

Obama insegue la Storia che lo aveva esaltato prima del tempo

Il New York Mag chiede a 53 storici il giudizio dei posteri sul presidente. Domanda: perché a Parigi non è andato?

New York. E’ difficile fare previsioni, specialmente riguardo al futuro, ha detto una volta il grande maestro della tautologia Yogi Berra, ma se il New York Magazine mette in copertina l’“Obama History Project” forse non è tanto per capire cosa penseranno i posteri del presidente, quanto per decifrare cosa pensa oggi il presidente di se stesso. Come si vede allo specchio del presente e come si immagina nella lente distorcente e immaginifica del futuro. La legacy, l’eredità politica, il giudizio della storia sono ossessioni ancestrali dei leader; ancora di più per quelli che sono appesantiti dalla zavorra dei bagni di folla preventivi, dei premi Nobel sulla fiducia, dell’aggettivo “storico” appiccicato anche sulla più insignificante delle decisioni, perché la Storia con la esse maiuscola è già scritta nel colore della pelle di un uomo che in un passato nemmeno troppo lontano alla Casa Bianca avrebbe al massimo servito la cena. Obama era lo spirito del mondo a cavallo prima ancora di combattere la sua battaglia di Jena. E poiché anche la più sofisticata astuzia della ragione può venire a noia, il sigillo impresso nel destino andava assecondato e certificato con decisioni di calibro e portata conseguenti. Da qui il grande gioco della divinazione intorno all’orma che il presidente stamperà nella storia, gioco che il New York Magazine ha messo sotto forma di questionario per 53 storici pronti a misurarsi con una disciplina all’incrocio fra la chiaroveggenza e la psicostoria di Asimov, immaginaria scienza predittiva tanto cara a Paul Krugman. Sarà ricordato come un grande presidente? Come un disastro? Una promessa non mantenuta? Un bluff? A quale provvedimento o decisione sarà legato il suo nome? All’Obamacare? Alla regolamentazione di Wall Street? Ai droni? Alla morte di Bin Laden? All’uguaglianza economica? A quella razziale? Al ritiro dall’Iraq e dall’Afghanistan? Alla normalizzazione dei rapporti con Cuba?

 

Il questionario fantastorico si apre con una schermaglia fra il liberal Jonathan Chait e il conservatore Christopher Caldwell, del Weekly Standard. Per Chait la storia sarà assai clemente con un presidente che “ha accumulato una serie di successi politici che sono più profondi di quanto anche molti dei suoi sostenitori ammettono”, dal modo in cui ha salvato e poi imbrigliato le banche che avevano fatto crollare il mondo alle regolamentazioni ambientali fino all’apertura dei canali di dialogo con regimi che – questo è il sottotesto – evaporeranno grazie alla forza della “openness”, non con gli attacchi in picchiata dell’aquila imperiale. Il matrimonio gay è parte di un processo culturale più ampio di un singolo presidente, ma la storia tende a ricordare più chi mette la firma che gli autori del contratto, e Obama ha saputo cambiare idea – “evolvere” è il termine ufficiale – giusto in tempo per allinearsi con la storia. Più complicato l’allineamento con la storia quando si parla di primavere arabe, di sommosse in Iran, di guerra civile in Siria, di crisi Ucraina, ma per gli ammiratori gli ideali non si danno mai in purezza, ci sono sempre dosi di compromesso da trangugiare.

 

In questo senso, sostiene Chait, l’imperturbabile freddezza che tutti, amici e avversari, rimproverano a Obama è in realtà la chiave della resilienza del presidente che si legge già in chiave storica e si lamenta degli editorialisti che non hanno prospettiva. Quello che è stato capace di sopravvivere a 19 episodi che sono stati classificati dai media come “Katrina moment” e a sbaragliare l’avversario (debole, va detto) dopo quattro anni non esattamente trionfanti.

 

L’assenza alla marcia francese
Tutta questa clemenza della storia ha però un lato oscuro. “C’è una ragione – scrive Caldwell – per cui la popolarità del presidente è caduta a livelli nixoniani. Anche le sue politiche che funzionano meglio hanno comportato un prezzo molto alto in termini di danni alle istituzioni, e hanno lasciato un paese meno unito, meno democratico e meno libero”.

 

[**Video_box_2**]E ancora: “La riforma sanitaria e il matrimonio gay sono spesso presentati come il cuore della legacy di Obama. Questo è un errore. Le politiche non sono necessariamente delle legacy, anche se durano, e ci sono ragioni per pensare che queste non lo saranno. Più la gente scopre nuovi dettagli sull’Obamacare meno la ama; la sua popolarità ha raggiunto il record negativo in novembre: 37 per cento. Trenta stati hanno votato contro il matrimonio gay e quasi dappertutto la sua legalità è garantita da sentenze di tribunali. Queste sono tipiche conquiste à la Obama, trionfi di tattica non della costruzione del consenso”. Il trionfo della tattica, l’eredità fatta di “mezzi e non di fini”, il leader che fa navigazioni di cabotaggio per circumnavigare prudentemente i problemi: questo è l’Obama storicizzato di Caldwell, un Gorbaciov americano “che crede che la storia e la tecnologia abbiano una direzione e il suo compito sia quello di allineare il paese con questa, poco importa quanto illogico e indesiderabile ciò appaia ai suoi concittadini”. E come Gorbaciov, anche Obama sarà stimato fra una generazione “ma probabilmente più dagli stranieri che dagli americani, più dai paesi nemici che dagli alleati”.

 

Proprio la debolezza nel definire il ruolo dell’America nel mondo è al centro delle critiche di molti degli storici interrogati dal New York Magazine. Intorno alla debolezza, anche simbolica, del presidente si sono interrogati in tanti quando domenica, a Parigi, fra l’eterogenea teoria di leader che a braccetto apriva il più grande corteo della storia francese per rivendicare le libertà occidentali contro l’odio feroce del fondamentalismo islamico non hanno visto il leader del mondo libero. Per Obama, evidentemente, quel giorno la storia si faceva altrove.
Twitter @mattiaferraresi