Il ripiegamento e l’incertezza dell’occidente danno largo spazio a nuovi attori politici: alcuni rivitalizzati dalla caduta dell’impero sovietico, altri sospinti dagli effetti pro sviluppo della rivol

Alle radici del disordine

Antonio Pilati

Il terrorismo che tracima dal Medioriente, le rivendicazioni di potenza delle vecchie nazioni imperiali, le pesanti responsabilità degli Stati Uniti. Antichi santuari, genocidi storicizzati, Dna da potenza: Giappone, Turchia e Russia, rivendicano la propria tradizione.

Giappone, Turchia e Russia, nazioni dalla lunga tradizione imperiale, hanno in comune un tratto rilevante: rivendicano tutte con orgoglio la propria storia di potenza senza rinnegarne o filtrarne con scuse d’ipocrisia le parti più crudeli e offensive. I primi ministri di Tokyo, da Koizumi ad Abe, fanno visita al tempio di Yasukuni dove sono sepolte le vittime di guerra nipponiche, criminali inclusi; in Turchia ideologi e politici compiono ogni sforzo per circoscrivere, storicizzando e minimizzando, il massacro degli armeni; il regime di Putin insiste sul destino di potenza della Russia dispiegato in una continuità secolare che non omette l’epoca staliniana. In ciò tutti e tre i paesi marcano una significativa differenza sia con la visione dei popoli offesi sia con il mainstream ideologico dell’occidente che adotta senza riserve il punto di vista delle vittime. La memoria è un segmento cruciale della politica e la sua rivendicazione, anche spavalda o sfacciata, non è solo nazionalismo d’antan: segna indipendenza di giudizio e forza culturale, dichiara autonomia strategica.

 

Anche se differenti nell’impianto, fenomeni analoghi di rivendicazione culturale, orgogliosa quando non sciovinista, compaiono in altre grandi nazioni: in India la tutela privilegiata della tradizione hindu si affaccia nella legislazione nazionale e singoli stati fanno leggi contro il proselitismo; Israele formalizza in norme positive il nesso fra stato e identità ebraica; la Cina potenzia la propria presenza culturale nel mondo e comincia a formare all’estero una propria figura nazionale sganciata dallo stereotipo comunista.

 

Finora queste varie tendenze erano classificate, con benevolo ottimismo, come espressioni del multipolarismo in ascesa: la superpotenza americana patisce un’evidente sindrome da iperestensione, con Obama organizza un inevitabile e benefico ripiegamento e altre potenze espandono la propria influenza nelle aree rimaste sguarnite. In realtà il processo in corso è più complesso, più conflittuale e più pericoloso. I fenomeni di rivendicazione culturale si diffondono soprattutto nelle nazioni a dimensione continentale o comunque a larga scala e appaiono, più che il passaggio da una forma di equilibrio a un’altra, il correlato di un ordine mondiale frammentato fra potenze che per lo più agiscono in modo non cooperativo: assolutizzano la propria agenda, la separano, con effetti di solipsismo strategico, da quelle altrui e non sembrano riconoscere interessi generali di sistema che eccedono il proprio.

 

Proviamo ad allargare la prospettiva: è un quarto di secolo, da quando l’Unione Sovietica si è frantumata e si è dissolto l’ordine mondiale basato sulla deterrenza nucleare e la fedeltà di campo, che non esiste più un assetto stabile delle relazioni internazionali. L’occidente non ha compreso la portata dell’evento, ha spesso ceduto a interpretazioni idealiste, si è mosso molte volte a ranghi sparsi. Il disordine si alimenta anche per insufficienza concettuale. La fine del conflitto tra i due blocchi di stati è interpretata in chiave ideologica, come conferma empirica della superiorità di un sistema di pensiero e, in via derivata, di un modo di organizzare la vita sociale. Francis Fukuyama, influente filosofo della politica, lo teorizza in un libro famoso del 1992 che prevede non tanto “la fine della storia” quanto il suo inevitabile svolgersi entro lo schema ideale della democrazia di mercato. Ne vengono conseguenze significative: è immaginato un mondo unipolare dove sbiadiscono i vincoli alla superpotenza residua; gli interventi all’estero sono trattati, per l’assenza di controlimiti, come operazioni di polizia su larga scala (Iraq 1991, Yugoslavia); la Russia, sbandata e sconnessa, appare alla mercé dell’occidente; le alleanze, finiti i blocchi, perdono rilevanza e l’Europa si concentra su di sé: pensa, via euro, di assorbire la Germania – neutralizzandola – e di allargarsi a est innalzando insieme dimensioni e status internazionale.

 

E’ una visione minata da gravi fraintendimenti e nel tempo si rivela inconsistente. Il crollo in Europa dei sistemi a economia pianificata non è di per sé la vittoria della democrazia liberale o la prova fattuale della sua superiorità. Il mercato si mostra su scala mondiale come un congegno di straordinaria efficacia per lo sviluppo dell’economia ma anche di grande duttilità operativa: può declinarsi in forme molto diverse (in relazione all’intervento dello stato o alla regolazione della finanza) ed è compatibile con quasi tutti i regimi politici, dalla dittatura all’oligarchia autoritaria (Cina, Vietnam, Iran) alla giunta militare (Cile di Pinochet, Egitto) fino alla democrazia più o meno guidata dall’alto. Molti tra i fallimenti patiti dall’occidente negli ultimi due decenni hanno radice proprio nell’idea che attribuisce a mercato e democrazia, uniti per natura, attrattiva universale e forza insuperabile.
Se il primo errore di giudizio riguarda la figura del vincitore, il secondo concerne l’identità dello sconfitto. Nel 1989 finisce in dissesto un modello economico (il sistema pianificato) e nel 1991 va in pezzi il regime politico che lo inquadrava (l’Unione sovietica): la nazione russa, che faceva da sfondo a entrambi e per questo è considerata co-protagonista del disastro, da retrocedere nella seconda o terza fila delle potenze mondiali, è fiaccata ma intatta: non ha truppe straniere sul suo territorio, mantiene tutte le sue armi, resta una superpotenza nucleare con cui bisogna fare accordi se si vogliono ridurre a una soglia meno pericolosa i congegni per la distruzione di massa. Immaginare che il 1991 sovietico sia una riedizione del 1945 tedesco pone le basi per il passaggio da Eltsin a Putin e per il ritorno in grande stile dell’orgoglio nazionale russo.   

 

I due fraintendimenti hanno un punto in comune: rimuovono dall’analisi i fattori di potenza. La visione alla Fukuyama mette in primo piano lo scontro fra schemi ideali e manda sullo sfondo la dimensione della forza, il conflitto fra ragioni di stato diverse. Di fatto ciò minimizza la politica, espunta come elemento secondario. Ma quel che accade nel 1990-’91 è soprattutto la fine di un ordine mondiale: durava da oltre 40 anni, aveva garantito con guerre circoscritte e una pace sostanziale il periodo di maggiore sviluppo economico nella storia dell’umanità, aveva posto le premesse per un eccezionale salto tecnologico – quello digitale – che eguaglia e forse supera in dimensioni e ricadute sociali la rivoluzione industriale. La sua fine è un evento in essenza e al massimo grado politico. Insieme all’impero sovietico cade infatti un’impalcatura di assunti e convenzioni che regolava i rapporti fra i blocchi e fra le nazioni al loro interno, stabiliva limiti – ovviamente differenziati – per l’azione dei vari soggetti politici, garantiva un equilibrio globale che teneva a freno il potenziale di distruzione reciproca: tutto ciò dava all’assetto dei rapporti fra gli stati, ormai reso globale, un sigillo di legittimità.

 

Da allora il tema dell’ordine internazionale si è dileguato se non come pretesto per qualche esercizio retorico. Non è nato un nuovo assetto dei rapporti internazionali basato su principi condivisi – anche perché nessuno si è fatto avanti a promuoverlo. L’ordine infatti si costruisce: in modo cooperativo isolando e legittimando aree dove interessi generali permettono di selezionare obiettivi comuni. Al contrario, negli ultimi vent’anni il solipsismo strategico ha preso il sopravvento. Mancano alleanze coerenti e quando sono ereditate dalla storia, come quella occidentale, perdono a gran velocità ragione e focus tramutandosi in convivenze conflittuali. Non esistono strumenti di deterrenza efficaci su scala globale, le armi nucleari proliferano creando pericoli ma non riescono più a portare disciplina nei rapporti internazionali. Le sanzioni economiche, unica misura cogente usata con frequenza e intensità, hanno spesso effetti autolesionisti e provocano in ogni caso disgregazione. Sono i sintomi di un disordine internazionale che continua a estendersi.  

 

La responsabilità principale grava sull’occidente e in particolare sugli Stati Uniti che per gran parte del periodo hanno detenuto un potere esteso e non bilanciato. Guidata da un’idea della congiuntura storica che rimuove la politica, la superpotenza americana oscilla, sotto quattro diversi presidenti, tra due linee o meglio tra due stati d’animo: da un lato l’impulso a fare da sé, a incarnare direttamente nella propria azione, che negli anni 90 del secolo scorso non incontra limiti significativi, i princìpi emersi con la fine vittoriosa della Guerra fredda; dall’altro l’intenzione di assoggettare i rapporti internazionali a una trama paragiuridica (tutela dei diritti umani anche contro i governi; intangibilità dei confini se non in forma consensuale; interventi umanitari di varia caratura) che dovrebbero acquisire con il tempo valore quasi universale. Il risultato di questa impostazione, che spesso nel concreto dell’azione politica si miscela e si scontra con obiettivi e vincoli della ragion di stato (l’intervento in Iraq è un esempio drammatico), genera fallimenti che alla fine incentivano – e ne forniscono l’argomento razionale – il ripiegamento di Obama e la progressiva rinuncia alla responsabilità, finora assolta dagli Stati Uniti, di pivot delle relazioni globali.  
Anche l’Europa, impegnata nella costruzione di un’unione a scala continentale, si allontana dalla politica: una leadership convinta che il progetto di integrazione, passando alla fase operativa, sollevi divergenze insuperabili, si affida ad algoritmi in apparenza neutri per pilotare con il minimo di scosse lo svuotamento dello stato nazionale e riconvertire con ciò la vita di 500 milioni di persone. Il progetto, minato dalla hybris, provoca danni estesi uno dei quali – e non il minore – è la totale concentrazione sui propri affari interni e il ritiro dalla scena globale. Fanno eccezione pochi stati che, per tradizione o per sfruttare i vantaggi acquisiti con l’automatismo degli algoritmi, fanno politica a largo raggio – ma essenzialmente in difesa di piccole strategie nazionali.

 

Il ripiegamento e l’incertezza dell’occidente danno largo spazio a nuovi attori politici: alcuni gemmati o rivitalizzati dalla caduta dell’impero sovietico, altri sospinti dagli effetti pro sviluppo che porta la rivoluzione digitale. E’ un altro punto cruciale: l’enorme e capillare potenziamento della tecnologia ha grande efficacia politica – immediata, intensa e poco compresa. Quando la distribuzione delle conoscenze avviene a tempo zero, l’accesso ai depositi di sapere si rende di fatto universale e ognuno – in quanto ha facile modo di trovare la propria audience – può diventare fonte, c’è un primo rapido esito da registrare: si dissolvono rendite di posizione basate su depositi cognitivi accumulati nel tempo, recintati e resi esclusivi; si azzerano intermediari e broker; si moltiplicano i teatri d’azione, i processi produttivi, le opportunità di mercato entro cui è possibile intervenire. Nel momento in cui le infrastrutture di comunicazione spianano gli ostacoli che tempo e spazio oppongono alla circolazione cognitiva e la potenza di calcolo massimizza il numero e l’ampiezza delle operazioni che rientrano nel novero dei possibili, allora i mercati diventano globali e la finanza moltiplica (nel bene e nel male) i suoi prodotti e la loro efficacia. L’ascesa economica di Cina, India, Brasile ha tempi scanditi in parallelo con questo drammatico sviluppo.

 

Le nuove potenze sono estranee all’idea di ordine mondiale elaborata dall’occidente, sia nella versione westfaliana dell’equilibrio di potenza sia nella versione assiologica della giurisdizione umanitaria: in alcuni casi seguono cogenti obiettivi nazionali che non ammettono responsabilità globali, in altri dipendono da tradizioni in cui vige una diversa idea di ordine (gerarchico e autocentrato in Cina, religioso nel mondo islamico). Allo stesso modo potenze antiche, come la Russia umiliata dalle vicende successive al 1991 e minacciata dall’espansione militare della Nato, o il Giappone, preoccupato per l’aggressivo attivismo della Cina, mettono in primo piano dure strategie di autodifesa.

 

In queste condizioni, aree cruciali del mondo finiscono abbandonate a contese multiformi e sanguinose, con ricadute – spesso devastanti – a largo raggio. L’epicentro del disordine è, per densità storica e concentrazione di religioni, il Medio oriente. Il ripiegamento ideale dell’occidente, che porta con sé incertezza strategica e sconfitte politiche, precipita in un drammatico salto di dimensione: il fanatismo omicida trova radicamento territoriale, da connessione virtuale si materializza in istituzioni concrete – si fa stato. Con i talebani vi fu un anticipo afghano di tale evoluzione che ora si diffonde in più punti, dalla Libia alla Nigeria, dissestando anche tra Siria e Iraq gli stati esistenti: nel mondo ciò costituisce un grande spot di conferma che da un lato riclassifica, esasperandole, le attuali lotte per l’egemonia regionale e dall’altro drammatizza la pressione esistenziale soprattutto sulla vicina Europa che oggi confusamente si percepisce al centro di un conflitto di visioni globali – di civilizzazione. Ma anche altri luoghi, come l’Africa intorno al Sahara e ai Grandi laghi oppure l’Asia centrale, ospitano sorde e feroci lotte di supremazia (economica e politica) dove l’occidente manca.

 

In passato, prima della deterrenza nucleare, le ondate di turbolenza politica facilmente sfociavano in conflitto: ora, con gli stati del globo che fanno parte di un’unica scena politica, tutto è diverso e forse più pericoloso. La rivoluzione digitale aggiunge tensione: tramite la finanza ridisegnata dalla tecnologia in tutto il mondo l’economia vive sconvolgimenti ripetuti e sovrapposti. Il ritmo del cambiamento accelera quasi ovunque e molte formazioni sociali, già provate da una demografia in profonda mutazione, faticano a metabolizzarlo. La rivoluzione industriale partita in Inghilterra nel 1760 ebbe il vantaggio, dopo i soprassalti napoleonici, di dispiegarsi nell’Europa messa in ordine e pacificata dal Congresso di Vienna. Ora invece anche il mercato dell’energia conosce trasformazioni di vasta portata e i sussulti del prezzo del petrolio, che incidono sul bilancio e il benessere di molti stati-chiave, mostrano quale potenziale di disordine sia insito nel corto circuito fra tecnologia e politica.   
Occorre oggi in occidente una profonda riflessione che operi, in controtendenza rispetto agli ultimi 25 anni, per riallacciare nessi – con la Russia in primo luogo – e costruire elementi di ordine sistemico. La diplomazia vaticana lo fa da tempo e ora Obama, dopo aver diviso alleati storici e punito alleati potenziali, chiede a Kissinger, il massimo teorico dell’ordine mondiale, di provare a riannodare con Putin i fili tranciati. Sono segni favorevoli: era tempo.