Andrea Orcel

In banca si spera nella manina di Draghi (a Mps pure in quella di Orcel)

Ugo Bertone

Nessuno si è stupito quando il Banco di Santander, al momento di chiedere due giorni fa al mercato 7,5 miliardi di euro, si sia affidato, oltre che a Goldman Sachs, al “re Mida” della City: Andrea Orcel, italiano, asso dell’investment banking.

Milano. Quando il gioco si fa duro, si sa, i duri cominciano a giocare. E tra questi figura senz’altro Andrea Orcel, italiano, asso dell’investment banking strappato nel 2012 da Ubs a Merrill Lynch con un ingaggio di 25 milioni di franchi svizzeri, più di quanto pagato dall’Inter per Shaqiri, l’asso della nazionale elvetica. Così nessuno si è stupito quando il Banco di Santander, al momento di chiedere due giorni fa al mercato 7,5 miliardi di euro, si sia affidato, oltre che a Goldman Sachs, al “re Mida” della City, uno che alle cinque e mezza del mattino già esige dai collaboratori il piano di battaglia della giornata. Ma le vie bancarie di Orcel – 50 anni, cinque lingue, “un fisico da star di Hollywood” secondo il Financial Times – sono (quasi) infinite. E a pochi è sfuggito che, oltre ad Ana Botín, fresca leader del colosso bancario spagnolo, tra i clienti del banker figura anche il Monte dei Paschi di Siena, a caccia di finanziatori o di promessi sposi. Di qui l’idea (o il miraggio?) che fosse alle porte il matrimonio dell’anno: lo sbarco a Siena del Grande di Spagna che, causa l’operazione Antonveneta, è all’origine di molti dei guai del gruppo toscano. Il Santander, seppellito dalle vendite in Borsa, si è affrettato a smentire. Mentre a spegnere l’ottimismo per le prossime misure espansive del presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, ci ha pensato il Draft Capital Decision, in arrivo dalla neonata Vigilanza bancaria europea. Nelle varie missive, una diversa dall’altra, gli ispettori di Francoforte spiegano quale livello di patrimonio debbano raggiungere le banche italiane per ridurre il rischio di un collasso, in caso di nuove crisi. Una doccia fredda: dopo gli sforzi del 2014 per mettersi al passo con i requisiti minimi previsti dai parametri Ue, una bella fetta dei quindici gruppi italiani scrutinati da Francoforte (non solo Mps e Carige in attesa dell’esame di riparazione), dovrà fare uno sforzo supplementare di cui non è ancora dato sapere l’entità. Un po’ perché quel che è arrivato da Francoforte è solo una bozza, su cui forse (ma è lecito dubitarne) si potrà trattare. Un po’ perché i vertici europei hanno imposto il vincolo di riservatezza che non è durato più di due giornate.

 

Si è presto saputo che, in media, il patrimonio dovrà salire di tre punti abbondanti, dal 7 previsto dagli accordi di Basilea III al 10,5 per cento. Un sacrificio modesto per qualcuno. Assai più complicato per altri, come la Popolare di Vicenza, passata in extremis all’esame dello scorso ottobre, cui viene chiesto un supplemento di patrimonio fino all’11,6 per cento. La motivazione, per tutti, suona più o meno così: “Le strategie e i meccanismi adottati dall’istituto e i suoi fondi non garantiscono una copertura completa dei rischi”. Il diktat ha il sapore di un’esecuzione per Mps, impegnata nell’improba caccia ai 2,5 miliardi necessari per fare fronte agli impegni già assunti con Francoforte. A questa cifra potrebbero aggiungersi altri 1,6 miliardi, tanto quanto sollecitato dai calcoli della Vigilanza che, per assumersi il rischio Mps, chiedono che il patrimonio salga fino al 14,3 per cento, sette punti in più di quanto previsto da Basilea III. Di fronte a questa novità, le possibilità di salvare l’autonomia di Mps si riducono al lumicino. Anzi, sarà impresa improba, anche per un mago come Orcel, individuare un possibile sposo di Rocca Salimbeni se non a valori di svendita. Ma le conseguenze delle richieste di Francoforte vanno assai al di là degli equilibri del credito nostrano. Non solo perché l’Italia è in ritardo sull’adozione della direttiva europea per consentire bail-in bancari, ovvero un salvataggio che gravi sui soci privati della banca e non sui contribuenti (il bail-out). Infatti per far fronte alla sfida, le banche hanno due strade: raccogliere nuovo capitale – difficilissimo – o ridurre gli impieghi nell’economia reale per indirizzarsi su Bot e Btp che non prevedono “consumo” di capitali come è già successo con i prestiti Tltro, erogati da Draghi per far ripartire la liquidità e l’erogazione di prestiti alle imprese, ma che si sono fermati nelle casseforti delle banche.

 

Una pesante ipoteca per la Bce, che solo due giorni fa avrebbe messo a punto le linee generali del Quantitative easing, o allentamento quantitativo: la Bce potrà comprare fino a 500 miliardi di euro in titoli di rating pari ad almeno BBB- (Italia compresa, dunque). Meno di quanto sollecitato da Draghi (mille miliardi, compresi però covered bond e altre operazioni), più di quanto  la Bundesbank (pronta a introdurre vincoli all’operazione) intenda tollerare. Il diavolo in questi casi sta nei dettagli. E non solo, visto il siluro partito dalla Vigilanza che ha sede nei vecchi uffici occupati da Draghi fino a pochi mesi fa.

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