Dentro al Donbass antifascista cominciano beghe poco idealiste

Andrea Sceresini

“No pasarán” dice lo slogan ibarruriano adottato dagli insorti, e sui palazzi sventolano bandiere rosse. Ma l’entusiasmo della lotta contro il governo centrale sta cedendo il passo al lungo inverno del discontento, dove a comandare sono i ricchissimi.

Donetsk. Sugli edifici pubblici sventolano le bandiere rosse. Il Parlamento è stato ribattezzato “soviet”, i deputati si fanno chiamare “compagni”. Le strade di Donetsk sono tappezzate con poster di operai e minatori, lo slogan più ricorrente è l’eroico “No pasarán” di ibarruriana memoria. E’ la bella favola del Donbass rivoluzionario, baluardo antimperialista di una nuova guerra di Spagna. “Siamo in lotta contro il fascismo, per una società più libera e più giusta”, annuncia il presidente del locale consiglio supremo, Boris Litvinov. In molti ci hanno creduto: centinaia di volontari da tutto il mondo hanno raggiunto l’Ucraina orientale per combattere in difesa della giovane Repubblica. Sono state fondate le “brigate internazionali”, con tanto di falci e martello ricamate sulla divisa. I lavoratori hanno imbracciato il fucile, rispolverando i vecchi frasari di epoca sovietica. Visto dall’esterno, il fronte filorusso appare unito e compatto. La realtà è diversa: mentre nelle trincee colme di neve si continua a combattere, i rivoluzionari del Donbass stanno vivendo il loro tragico Termidoro (che fu la fase della Rivoluzione francese in cui i più fervorosi dovettero fare bruscamente i conti con la realtà). L’ultima notizia risale a qualche giorno fa. Il 21 dicembre tre attivisti del movimento marxista ucraino Borotba sono stati arrestati a Donetsk dai miliziani del battaglione Rostov. I tre – secondo fonti locali – sarebbero accusati di appartenere “a un gruppo di infiltrazione e sabotaggio”. Il 27 dicembre, sempre nella città di Donetsk, è finito in manette anche il leader dell’organizzazione, il deputato del consiglio comunale di Odessa Alex Albu, uno dei pochi sopravvissuti alla strage della Casa dei Sindacati.

 

Il fatto non ha trovato spazio sulla stampa internazionale. Eppure non si tratta di una novità: meno di un mese fa, la medesima sorte era toccata a un altro leader della dissidenza di sinistra, Andrej Sokolov, il quale, in seguito a uno scambio di prigionieri, era stato clamorosamente consegnato ai servizi di sicurezza di Kiev, la temuta Sbu. “Putin vuole restaurare i rapporti col governo ucraino – denuncia il sito d’opposizione russo Forum.Msk – In tale prospettiva, qualsiasi tipo di resistenza è decisamente d’intralcio, soprattutto quella rossa”. E’ il canto del cigno delle grandi parole d’ordine, sacrificate sull’eterno altare della realpolitik. Il Donbass segna il punto d’attrito nello scontro tra superpotenze: Mosca da una parte, Washington e Bruxelles dall’altra. Lo spazio di manovra riservato agli outsider si va pian piano esaurendo. A dettare le nuove regole del gioco sono le esigenze economiche dei gruppi di potere che sostengono gli opposti contendenti: in primis, quelli legati al Cremlino. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: la “primavera russa” si è ormai fossilizzata in un rigido inverno di guerra e repressione. L’“uomo forte” di Donetsk è l’oligarca locale Rinat Akhmetov, proprietario dell’Fk Shakhtar, primo miliardario d’Ucraina e centunesimo uomo più ricco del mondo secondo Forbes. Nonostante le iniziali minacce di nazionalizzazione – annunciate con gran clamore dalla propaganda separatista – le sue aziende non sono mai state toccate. Al contrario: esse continuano a prosperare. Nel periodo gennaio-giugno 2014 il fatturato di una delle principali società del gruppo, la holding mineraria Metinvest, è aumentato del quarantasei per cento rispetto all’anno precedente.

 

[**Video_box_2**]“I seguaci di Akhmetov sono presenti in tutti gli strati del potere – scrive il giornalista russo Dmitrij Radionov della Svobodnaja Pressa. Lui stesso, anche se da tempo non si fa vivo nel Donbass, continua a incassare guadagni spropositati”. Nella scorsa primavera, durante le settimane caotiche dell’insurrezione, intere formazioni della milizia furono schierate a difesa delle proprietà dell’oligarca. Il reparto più attivo su questo fronte fu il celebre battaglione Oplot, il cui leader, Alexander Zakharchenko, è l’attuale premier della Repubblica di Donetsk. Lo stesso discorso vale per il comandante del battaglione Rostov, Aleksander Chodakovskij, che non a caso viene soprannominato “l’uomo di Akhmetov”. Tra le tante eminenze grigie del Donbass figura anche l’ex presidente ucraino Viktor Yanukovich, detentore di forti interessi economici nel campo minerario. Buona parte dei funzionari locali provengono dal suo entourage politico. Uno dei pupilli del vecchio presidente è l’ex governatore dell’oblast di Lugansk, Oleksandr Yefremov, già capogruppo del Partito delle regioni alla Verchovna Rada di Kiev, il quale, tramite i suoi seguaci, sarebbe in grado di esercitare una fortissima influenza sul governo separatista locale. Lo stesso ex premier della Repubblica popolare di Lugansk, Valery Bolotov, avrebbe lavorato per un certo periodo come suo autista. E’ il duro paradigma di questa gelida guerra di logoramento: da una parte gli idealisti barricati nelle trincee; dall’altra, vecchi e nuovi oligarchi che continuano a fare il loro gioco. Antaj è un giovane comunista di Kiev. Ha ventitré anni, una famiglia che lo aspetta, una laurea in Ingegneria: all’indomani dell’insurrezione, come molti suoi compagni, ha mollato ogni cosa ed è partito per il Donbass. Oggi è un miliziano del battaglione Rostov: combatte sul fronte di Pisky, a pochi chilometri dall’aeroporto di Donetsk. “Credevo di venire a lottare per i miei ideali – racconta –, ma purtroppo la situazione è ben diversa. Questa è una battaglia tra nazionalismi: ucraini contro russi, filoccidentali contro filorientali. Di cambiare le cose non se ne parla quasi più. ‘Innanzitutto dobbiamo vincere la guerra’, ci dicono. ‘Il resto? Chissà, forse verrà dopo’”.

 

La temperatura, tra le pianure del Donbass, ha già superato i venti gradi sotto zero. I cannoni sparano ogni giorno, facendo nuove vittime tra la popolazione civile. Centinaia di persone hanno trovato rifugio nei bunker sotterranei, mentre in molti quartieri manca la luce, l’acqua e il riscaldamento. Donetsk rabbrividisce sotto la neve, mentre lassù, sul pennone più alto del palazzo del governo, continua a sventolare la bandiera rossa.

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