Milena Gabanelli, conduttrice dell’incensatissimo “Report” in palinsesto su Rai 3

Milena e er Cecato

Nicoletta Tiliacos

Un’intercettazione non vale l’altra e non tutte le mascariate sono uguali. Strabismi e inaspettate clemenze della Gabanelli. Walter Siti e la mafia che non c’è. Nel mare torbido del “name dropping” all’amatriciana di Mafia Capitale, essere nominati equivale a essere condannati.

Un’intercettazione non vale l’altra, nel Mondo di Mezzo all’ombra del Cupolone malavitoso e pseudomafioso. Non si capisce, altrimenti, perché tra le mille conversazioni registrate dai Ros e trasformate da quotidiani e servizi televisivi in simil-prove di reato nell’ambito dell’inchiesta “Mafia Capitale”, nessuno abbia dato peso al fatto che Massimo Carminati, detto “er Guercio” o più spesso “er Cecato”, così si esprimeva su un redattore di “Report”, Paolo Mondani, all’epoca in cui quest’ultimo si stava occupando dell’inchiesta su Finmeccanica per la trasmissione di Rai 3: “Ma poi io… Mondani lo conosco, Paolo lo conosco da una vita, gli ho mandato a di’… ’a Pa’, ma porca puttana, siete diventati veramente dei gazzettieri, portavoce dei Pubblici Ministeri! Ma ti pare possibile se fosse vero una cosa del genere, ma che stavo fuori? Ma che cazzo stai a di’, ma siate seri!” (Ansa, 6 dicembre).

 

Ma sì, siamo seri. Nessuno può ragionevolmente immaginare che quella conoscenza “da una vita” (reale, millantata o esagerata che sia, tra “er Cecato” e “Pa’”) nasconda chissà quale oscuro inghippo o quale disdicevole promiscuità. Eppure, a usare coerentemente o almeno accademicamente il metodo giornalistico “uomo nominato, mezzo ammazzato”, perfino Mondani potrebbe essere costretto un giorno a rispondere al Giornalista Collettivo d’Assalto di quella conoscenza evocata nelle intercettazioni dei Ros. Intercettazioni tritacarne, volantinate a tutti gli organi di informazione, che stanno moltiplicando e generalizzando il metodo di cui sopra. Un metodo che assomiglia alla magia (nera) per contatto di certi riti tribali. Un metodo in virtù del quale, per contaminarsi con esiti nefasti, basta partecipare a una cena pubblica con mariuoli all’epoca dei fatti assolutamente non noti come tali, oppure essere citati in intercettazioni zeppe di pettegolezzi e informazioni pataccare di quarta mano (o meglio: basta per qualcuno e per qualcun altro no).

 

E’ che nel grande mare torbido delle allusioni, delle insinuazioni, del “name dropping” all’amatriciana di Mafia Capitale, essere nominati equivale a essere sospettati, se non già condannati in pectore. Frequentare il ristorante “Celestina” ai Parioli o andare a mangiare il gelato allo Zodiaco e nei locali à la page di Ponte Milvio sembra diventato equivalente, a leggere certi resoconti da Grand tour sui “luoghi di Mafia Capitale”, ad autoiscriversi a un inesauribile registro degli indagati. Come a Monopoli, si parte da lì, si passa per l’inchiesta su Mafia Capitale e si arriva dritti dritti alla scomparsa di Emanuela Orlandi, attraverso la tappa obbligata della banda della Magliana. E’ l’infinito Romanzo criminale dove di notte tutti i gatti sono bigi, la brulicante “Suburra” evocata nel libro di Carlo Bonini (assaltatore di verità per conto di Repubblica) e Giancarlo De Cataldo (magistrato dedito alla fiction, con lusinghiero e meritato successo). Allo stesso Bonini e al suo collega Paolo Berizzi, per inciso, siamo debitori di un quarto d’ora di vera allegria, grazie a quella cronaca ormai vecchia di un lustro in cui, con piglio degno del Washington Post in epoca di Watergate, veniva descritto l’aspetto delle ospiti fotografate di nascosto nel giardino di Villa Certosa, teatro della deboscia berlusconiana: “Alcune sembrano avere tratti slavi. E, nonostante vengano tutte riprese sempre in pieno giorno (normalmente tra le 13 e le 16), è come se indossassero un costume di scena. Passeggiano nel parco non in jeans o in scarpe da ginnastica, ma con stivali in velluto (viola, bianchi) scarpe dai tacchi alti, ridottissime minigonne, abiti colorati che ne fasciano i corpi”. Corpi (letteralmente) del reato, come si vede, nel giornalismo d’assalto alla Bonini possono apparire anche “abiti colorati” che “fasciano i corpi”: basta che a indossarli siano le amiche di Berlusconi e non la vicina di casa.

 

Ma torniamo a quell’intercettazione che tira in ballo Mondani. Per lui la contaminazione ovviamente non vale, perché appartiene alla nobile razza dei giornalisti d’assalto, come tutti quelli di “Report” e come la loro condottiera che ufficialmente giornalista non è, Milena Gabanelli (bocciata all’esame orale molti anni fa, decise che un tentativo era più che sufficiente: non aveva tempo per studiare i manuali, spiegò, e in effetti non risulta che ci abbia riprovato). Si sa che per ogni cronista, e più che mai per quelli d’assalto, le fonti sono fonti e la fedina penale della fonte non conta (o conta moltissimo, come in questo caso, ma fa parte del gioco). Del resto, nel settembre del 2007, sono stati proprio quelli di “Report”, bisogna dargliene atto, a raccontare per primi certe stranezze di quella cooperativa “de sinistra” pigliatutto, l’ormai leggendaria 29 giugno, la stessa alla quale Ignazio Marino aveva benecomunisticamente promesso il suo primo stipendio da sindaco (poi s’è scordato di farlo, pare). “Report” intervistò anche il capo della coop, Salvatore Buzzi, ex galeotto redento ma – come poi si è visto – non troppo: la Caritas di monsignor Di Liegro e Laura Lombardo Radice credevano fosse Jean Valjean e invece era una sòla. Seduto alla sua scrivania, con appesa dietro una riproduzione del “Quarto stato” di Pellizza da Volpedo – il popolo in marcia verso il Sol dell’avvenire e verso decine di nuovi appalti – Buzzi è ripreso classicamente, come Gabanelli comanda: da sotto in su. Così, anche quando l’intervista è concordata, sembra sempre un po’ rubata. Vuoi mettere l’emozione? La cosa, comunque, quella volta finì lì.

 

Rubata sul serio fu però almeno una parte dell’intervista che nel 2008 Paolo Mondani fece a Mario Di Carlo, assessore alle Politiche della casa della Regione Lazio con delega ai Rifiuti ai tempi della giunta di centrosinistra guidata da Piero Marrazzo. Il “metodo Report”, con Di Carlo, fu particolarmente implacabile. Chiamato a spiegare il piano di gestione della spazzatura nella capitale, in particolare rispetto alla vicenda della contestata discarica di Malagrotta, Di Carlo aveva risposto a tutte le domande. Poi, raccontò in seguito, Mondani gli aveva chiesto, “ora che l’intervista è finita e visto che sono vent’anni che ci conosciamo”, di spiegargli i suoi rapporti con Manlio Cerroni, detto “il Supremo”. Titolare dei terreni di Malagrotta e presidente del Consorzio laziale rifiuti, poi finito sotto processo per presunti illeciti legati alla gestione e allo smaltimento dei rifiuti a Roma e nel Lazio. Ne è uscito, per la cronaca, con una condanna a un anno per falso in atto pubblico. Nulla a che vedere, comunque, con la corruzione al fine di conservare un monopolio (un’altra “cupola”, quella dei rifiuti) e i gravi danni ambientali che si cercò di addebitargli, stile “terra dei fuochi” (a questo proposito, dobbiamo registrare che la Cassazione, il 10 dicembre, ha stabilito che la zona di Caivano, che doveva essere “avvelenata”, non lo è affatto, e non lo sono i prodotti del suo suolo. Vedi anche, sempre a questo proposito, l’inchiesta di Salvatore Merlo sul Foglio dell’8 febbraio 2014).

 

Torniamo a “Report”. Eravamo arrivati al punto in cui Mondani chiedeva in confidenza a Di Carlo delucidazioni su Cerroni. E Di Carlo – lo sventurato – rispose. Convinto che le telecamere fossero spente, raccontò in modo un po’ troppo disinvolto e romanamente stravaccato (parlava a un amico, no?) che “a tutti e due ci piace andare a mangiare… che cazzo ne so, la coda alla vaccinara, capito? Nel mondo che vive lui co’ chi cazzo ce va, co’ Caltagirone a mangiare la coda alla vaccinara?”. Raccontò, sempre in confidenza, di aver rifiutato la proposta che nel 2001 Cerroni gli aveva fatto per andare a lavorare da lui. Avrebbe poi spiegato ad altri giornalisti, a caso scoppiato, che il patron dei rifiuti romani gli aveva offerto il doppio del suo stipendio dell’epoca, ma lui si sentiva “bravo a fare il manager solo quando mi occupo della cosa pubblica”. Quest’ultimo particolare, sostenne poi, lo aveva raccontato anche a Mondani, ma Report non l’aveva mandato in onda. Della chiacchierata fuorionda “tra amici” furono invece trasmesse le parti più imbarazzanti nella puntata del 23 novembre 2008, intitolata “L’oro di Roma”. Quella trasmissione costò al delegato ai Rifiuti della Regione Lazio le dimissioni e una mestissima fine di carriera. Per manifesta ingenuità e anche perché destra ed estrema sinistra – Prc, Verdi e Sd – chiesero a gran voce la sua rimozione dagli incarichi in giunta, salvo poi partecipare tutti in coro ai funerali di Di Carlo, tre anni dopo, e dichiarare, sempre unanimemente, che in fondo si trattava di un uomo onesto finito stritolato senza vere colpe. Nessuno però se l’era filato, quando aveva denunciato un montaggio tendenzioso, che aveva utilizzato “solo quelle frasi che consentivano di raccontarmi come una macchietta”, allo scopo “di dare una certa immagine di una persona che potesse sembrare facile preda delle lusinghe e della corruzione”. Mentre lui rispondeva “per due ore a domande sul piano rifiuti del Lazio, sui gassificatori di Roma e Albano, sugli inceneritori di San Vittore e Colleferro, sulle discariche di Roma, Guidonia, Viterbo, Latina, Roccasecca, Colleferro, Civitavecchia e Bracciano, sulla raccolta differenziata”, non si era accorto “che all’intervistatore di tutto questo non importava nulla”. E peggio per lui.

 

Sei anni dopo, è toccato a Nicola Zingaretti, governatore Pd del Lazio, sperimentare il premiato “metodo Report”. E’ cronaca di questi giorni, i giorni desolati e confusi di Mafia Capitale. A fare esplicitamente riferimento a quel metodo è stato l’addetto stampa di Zingaretti, Emanuele Lanfranchi, a proposito della puntata andata in onda il 7 dicembre scorso. Lanfranchi ha raccontato che il giornalista della trasmissione della Gabanelli, Giorgio Mottola, aveva ottenuto un’intervista da Zingaretti, trasmessa in quella puntata, concordandola sul tema dei risparmi della Regione. Delle risposte in materia non c’era però traccia nella messa in onda, mentre tutto si era ridotto a domande sulle nomine troppo annunciate – e quindi, chissà, truffaldine? – di sessantatré nuovi dirigenti esterni. Il lancio della puntata, il giorno prima della trasmissione, aveva indotto Lanfranchi a chiedere spiegazioni telefoniche a Mottola, e la loro conversazione l’ha poi condivisa su Facebook: “Anche noi stavolta usiamo il ‘metodo Report’”, ha detto in sostanza Lanfranchi, che accusa la trasmissione di scorrettezza. “Report” ha replicato che il tema delle consulenze faceva parte di quanto concordato, sottolineando che lo stesso portavoce di Zingaretti ammette che “se avesse saputo che l’intervista si sarebbe concentrata su aspetti critici, come per l’appunto i dirigenti”, l’intervista non l’avrebbe data. Non è così, replica ancora Lanfranchi: “Affermate che mi sia lamentato perché l’intervista ‘ha avuto un tema diverso rispetto a quello concordato’. Mai detto. Semmai mi sono lamentato di una intervista monca”. E ha aggiunto: “Forse per la prima volta in vita mia sono dispiaciuto di aver avuto ragione. Una intervista totalmente priva di equilibrio, in cui sono stati usati solo gli ultimi cinque minuti… Si spacciano per vere, senza alcun contraddittorio o effettiva verifica, dichiarazioni gravissime che gettano un’ombra sui bandi per l’assunzione di dirigenti esterni”.

 

Ma è inutile piangere sul latte versato: una volta che ti hanno sputtanato, non c’è precisazione che valga, tutto diventa noioso piagnucolìo a fronte del giganteggiare del Giornalismo d’Assalto. Anche dopo la famosa puntata che denunciava le crudeltà sulle oche perpetrate dall’azienda produttrice di piumini Moncler (con il conseguente crollo in Borsa del titolo) qualcuno ha notato che nessuna delle imprese che fabbricano piumini da letto o per abbigliamento è mai stata esente da certi sistemi. Polemiche analoghe hanno investito, nel recente passato, colossi come Ikea. Ma Milena Gabanelli non ne ha parlato, tutta l’indignazione l’ha riservata all’italiana Moncler. La quale ha negato “ogni legame con le immagini forti mandate in onda riferite ad allevatori, fornitori o aziende che operano in maniera impropria o illegale, e che sono state associate in maniera del tutto strumentale a Moncler”.

 

Ma si sa che, dopo certe sparate, rettifiche e precisazioni affogano nell’invisibilità: poche parole, magari al termine della puntata successiva, quando già la palpebra dello spettatore cala. Ogni puntualizzazione diventa il tentativo di manipolare e/o condizionare la libera indagine degli incorruttibili Giornalisti d’Assalto di “Report”: denuncia fatta, capo ha. E lì rimane, a costruire nuovi capitoli e sottocapitoli del Romanzo criminale – che spazia dall’abuso edilizio sul terrazzo condominiale alla tentata strage – somministrato ogni domenica sera su Rai 3.

 

Poi, certo, capita anche a “Report” di fare ogni tanto un bagno. Nella non troppo limpida laguna veneta, per esempio. Nella puntata del 27 maggio 2012 di “Off the Report” (sempre factory Gabanelli) dedicata al Mose, la ex presidente del Magistrato delle acque di Venezia, Maria Giovanna Piva, narrò con toni accorati da perseguitata la sua rimozione dall’incarico, dopo otto anni e nientemeno che tre mesi prima della scadenza, a opera dell’allora ministro dei Lavori pubblici del governo Berlusconi, Altero Matteoli. Il sordido motivo? Dopo la sperimentazione su un certo tipo di cerniere a fusione per le paratoie previste nel progetto Mose, la Piva aveva sollevato dubbi su una scelta diversa che era stata fatta. Tanto era bastato, denunciò, per toglierla di mezzo e spedirla da Venezia a Bologna. Passano due anni, e lo scorso giugno la Piva viene messa agli arresti domiciliari proprio nell’ambito dell’inchiesta sul Mose. Secondo le accuse, avrebbe intascato mazzette per 327 mila euro. Per la Piva, scrisse il Gazzettino di Venezia, “l’ex presidente del Consorzio Venezia Nuova, Mazzacurati, parlò ai pm di uno ‘stipendio’ di 400 mila euro – prebende e consulenze estranee alle proprie funzioni per aziende legate al Consorzio Venezia Nuova”. Se fosse dimostrato (noi, a differenza di altri, preferiamo aspettare i processi) si comprenderebbe il dispiacere della Piva nell’abbandonare il Canal Grande.

 

Un’eroina di “Report” finita a mollo: ma che volete che sia? E poi: chi se ne è accorto? Il telespettatore magari affezionato ma pur sempre subissato e infine distratto? Lo scrittore Walter Siti è un attento esegeta dell’offerta televisiva nazionale, oltre che conoscitore delle borgate (anzi, bisogna dire periferie) romane, raccontate soprattutto nel romanzo “Il contagio” ma presenti in molti dei suoi libri. Siti osserva che “l’informazione televisiva, non solo quella di “Report”, ci ripete che è tutto un disastro: rubano dappertutto, c’è corruzione ovunque, la gente non ce la fa più, la gente sta morendo. Un’immagine devastante dell’Italia. Poi però ti dicono – la pubblicità, la politica – che bisogna essere ottimisti. Ma se qualcuno si mette in mente di cominciare da qualche parte – che so, diminuire il numero delle partecipate, imporre certe regole alle cooperative – allora ti ripetono in coro che il problema è ‘un altro’. Lo spettatore, ma vale per l’italiano in genere, è paralizzato. Avete notato che almeno dal 2009 tutti ripetono, su tutti i canali, che gli italiani non arrivano alla quarta settimana del mese? Se fosse vero, una gran parte sarebbe morta di fame. Ricordo i Forconi che da Santoro gridavano: ‘Stiamo morendo, fate qualcosa!’. Nessuno è morto, mi pare, e tornano tutti in trasmissione, prima o poi”.

 

Di Roma, dove ha vissuto a lungo prima di trasferirsi a Milano, il modenese Siti dice che “questa storia della mafia non mi convince. Non perché non ci sia il malaffare. Il ‘grado zero’ a Roma è l’universale ‘tu mi fai un piacere e io ti faccio un regalo’. Ma ora il racconto del marcio che tutto pervade fa terra bruciata anche attorno a chi non se lo merita, e ognuno guarda con sospetto chiunque altro. Ma non è ammissibile che chiunque abbia stretto la mano a Buzzi sia fatto fuori dalla politica. Della mala, per come l’ho anche conosciuta io, cioè quella dei quartieri, posso dire che un tempo c’era una forma di codice d’onore, un senso di identità, di appartenenza; magari volto al male, ma c’era. Ora ho l’impressione che questo sia saltato. A Roma la criminalità non è mai stata capace di controllare davvero il territorio, al di là del quartiere e delle singole ‘specializzazioni’. Ora invece tutti si sono buttati sulla finanza. Il malavitoso di quartiere si è invischiato nelle banche, negli investimenti… Ma in questo non c’è nessun confronto possibile con la mafia. Non c’è l’omertà da paura, semmai il fatto che, tacendo, si spera di guadagnarci. Che Buzzi minacciasse gente della sua coop per imporre il silenzio, non lo credo. Se tutto è coperto da finanza e appalti, non c’è bisogno di metodi mafiosi, di minacce e omertà. Per questo ritengo che il termine mafia, nella vicenda romana, sia totalmente fuorviante. Per il resto, il servizio ‘recupero crediti’ della mala romana i pollici li ha sempre spezzati”.

 

Ma intanto, nell’inchiesta su Mafia Capitale, il Giornalista collettivo d’Assalto comincia a chiedere conto a Nicola Zingaretti di quei trecentomila euro erogati dalla Regione alla 29 giugno. Pagamenti di prestazioni commissionate ed effettuate sotto precedenti giunte, quando Buzzi e la sua coop erano i fiori all’occhiello del mondo dell’accoglienza e della solidarietà. Adesso, invece, sono materia di interrogazione da parte dei grillini. I quali, peraltro, hanno dovuto smentire ciò che uno dei due “spezzapollici” di Carminati, Matteo Calvio, aveva scritto nel giugno del 2012 sul suo profilo facebook: “Da ieri sono diventato un membro dei (sic) Movimento 5 stelle. Stiamo aprendo presso le zone inferneto (sic), acilia, ostia uno studio dove daremo vita a questo movimento di Beppe Grillo. Chiunque fosse interessato ci contatti su fb”.

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