Il capitalismo municipale e i quattrini veri di Roma

Mario Sechi

Le partecipate del sistema comune-provincia-regione. Gli intrecci: minoranze, maggioranze e trasversalismi. Le regole della casa sono caserecce: confusione, consociativismo non-imprenditoriale, con o senza utili bisogna distribuire denaro e benefici. Le coop sociali e il vero business.

Se vai al mulino capita che t’infarini”. Lo scrive Giuliano Ferrara e mi ricorda alcune pagine di Ennio Flaiano su Roma, la sua scollacciata esistenza, un tran tran di calze a rete sul marciapiede, quel “mondo balzachiano da quattro soldi” descritto dallo scrittore “con i piedi fortemente poggiati sulle nuvole”.

 

Mi faccio del male, leggo le cronache scritte in questurese. Oltre lo stupro della lingua italiana, cos’altro? L’ex sindaco che porta valigette di soldi in Argentina. Gianni Alemanno? Lui, proprio lui, che fa lo spallone di se stesso in Sudamerica con le Hogan e l’abito da calimero? L’avrebbero beccato all’imbarco per eccessiva sudorazione. Ma ormai tutto fa brodo, Alemanno è nel tritacarne e le smentite della procura non contano nulla. Poi c’è l’altro, Alice nel paese delle meraviglie, il sindaco in carica, Ignazio Marino, che fa sapere al popolo di non volere la scorta e si presenta in bicicletta. Un demagogo arcobaleno. E la città? La spazzatura esonda dai cassonetti, ma chissenefrega, Ignazio ha la stella di latta sul petto. Nell’ufficio dello sceriffo succedeva di tutto – due assessori della sua giunta indagati – ma non si può essere perfetti.

 

Che storia. Siamo già arrivati alla sceneggiatura del processo Montesi secondo Flaiano: “Man mano che il tempo passa, il processo Montesi si rivela per ciò che temevo: un processo politico e letterario. Non segnerà la fine di una certa politica, speriamo segni la fine di una letteratura”. Ottimista. Quella letteratura invece è andata e va avanti. Rotolandosi nel fango, beatamente. Non ha la fantasia scassinatrice dell’amministratore pubblico, non saprebbe inventare il pastiche linguistico del gangster de borgata. Ma il mulino del giornalismo collettivo è piccolo, mal rifornito, divora tutto e va in tipografia con il solito cliché. E dunque mafia in Campidoglio sia. E tutti corrotti. E tutti ladri. Rileggo Flaiano per riprendermi dalla succosa rivelazione: “Roma, città corrotta? Non credo: troppi impiegati. Sarebbe una corruzione fondata sull’anticipo degli arretrati, su una ferma richiesta di aumenti e sull’anticipo della liquidazione. Ed è mai possibile?”. Sono a pagina 92 della “Solitudine del Satiro”, appunti, memorie, note, ritratti, che mi salva dalla narcosi del romanzo criminale in discount.

 

“Se vai al mulino capita che t’infarini”. Certo, e infatti nessuno parla del mulino, il vero, unico, ciclopico, visibile problema. Si chiama “Gruppo Roma Capitale” conta diciannove partecipate, due aziende speciali, due istituzioni, svariate associazioni, perfino una società assicuratrice. Paga ogni mese trentottomila dipendenti e macina quasi sette miliardi di fatturato, il mulino. E’ il potere economico della capitale, la grande macchina del consenso e del dissenso. Per vincere le elezioni la devi prima attaccare e poi spremere. Per perderle devi provare a cambiarla, che poi significa venderla o chiuderla. E se “è tutto un magna magna”, allora potete stare certi che è rigorosamente bipartisan. Questa non è roba appetibile per il ciclostile dei gazzettieri. Perché qui s’incrociano castelli e destini, cariche e gettoni, famiglie e famigli, giochi di società e imprese. Ma quale mafia. Mettetevi comodi, che è una cosa da divanisti. Basta sedersi e la cosa scorre davanti a voi che è una meraviglia: gli intrecci di Roma capitale, provincia di Roma e regione Lazio formano un reticolo di rapporti inestricabile. Un rovo. Se ci entrate, non ne uscite. Prendete il Moment e seguitemi. L’importante in questo mondo è osservare tre regole.

 

Prima regola: tutti partecipano a tutto. Regione, provincia, comune, enti pubblici e privati sono intrecciati fino a confondersi.

 

Seconda regola: chi è in maggioranza da una parte si ritrova in minoranza dall’altra e viceversa. Comandano tutti. Sono le porte girevoli del capitalismo municipale.

 

Terza regola: con o senza utili, bisogna distribuire in giro denaro.

 

Acea in realtà i suoi profitti li ha portati a casa (112 milioni di utile netto a novembre 2014), ma soprattutto ha altre quaranta società partecipate, un bel reticolo di poltrone, business collaterali, appalti e incarichi; Sviluppo Lazio dal 1° novembre ha incorporato la Filas spa e oggi è una portaerei finanziaria della regione con dentro di tutto, società sane e decotte; Roma capitale controlla Acea, Ama e Atac, società dalle quali si diramano altre quote di imprese e istituzioni varie a loro volta compartecipate da regione e provincia. Si va dal Parco tecnologico ambientale al Polo tecnologico industriale romano, passando per le Assicurazioni di Roma spa, l’Agenzia promozionale turistica del Lazio, il Centro agroalimentare, Alta Roma, Centrale del latte. Un suk di quote di maggioranza e minoranza, di cose da vendere e quotare, valorizzare e liquidare. Il topo può scegliere il formaggio ma anche i contratti d’assicurazione. Attaccarsi al tubo dell’acqua, alla presa della corrente o provare a rosicchiare un pezzo di cappotto delle sfilate autunno-inverno. I consigli di amministrazione in questo mondo sono un copia e incolla degli inviti ai cocktail, alle sfilate, alle presentazioni, agli “eventi”. Puoi scrivere in anticipo sul taccuino il nome dei presenti e sperare che ce ne sia qualcuno interessante tra gli assenti.

 

In questa babelica disorganizzazione il profitto dell’impresa è un optional, è l’opera del topo su una crosta di formaggio già consumata, perché mantenere in piedi la baracca costa così tanto che alla fine si può rubacchiare soltanto sugli avanzi. A volte di lusso, ma pur sempre avanzi. Qui il sistema delle cooperative fa il suo mestiere di sempre con un solo motto in testa “Franza o Spagna basta che se magna”. Assistenza, facchinaggio, strutture di accoglienza, servizio mensa. Non siamo nel settore dell’alta ingegneria, servono braccia e buona volontà, disperati da aiutare e sfamare e in non pochi casi far lavorare. Tutto il resto si fa con le relazioni con tutti quelli che contano in regione, provincia e comune. Prima di tutto con gli inamovibili, i dirigenti. Poi viene il resto, la politica. Ma le giunte cambiano e bianchi o neri, bisogna ricordarsi che il business non ha colore. Così Buzzi conosceva tutti. E tutti lo andavano a trovare. Pierre e sudore. Carità e capitolato d’appalto. Il suo medio-piccolo calibro imprenditoriale alla politica interessava poco o niente, perché era compensato dalla sua forza lavoro, le braccia, i voti.

 

Si sono infarinati in quel mulino? Certo che sì, solo che i titoli cubitali sono inversamente proporzionali alla grana mossa. Le grandi ricchezze nell’Urbe non si fondano sugli appalti dei servizi o sull’industria, ma sulla speculazione immobiliare. Roma è mattone, terreno, edificabilità, cubatura, piano regolatore e, certo, anche qui il comune, la provincia e la regione sono lo snodo, ma il plot non ha nulla a che fare con Diabolik, er Cecato, er Cicorione e compagnia bella. E’ tutta un’altra storia, quella dei ladri in Campidoglio, è una mandrakata, ma senza le maschere di Proietti e Montesano.

 

[**Video_box_2**]Il tipo umano che emerge dal brogliaccio

 

“Se vai al mulino capita che t’infarini”. Certo, perché il tipo umano che emerge dal brogliaccio non è una sagoma capace di una grande impresa. Fatta una rapina, le altre sono tutte uguali, meno faticose di una regolare pratica burocratica. Quando ho visto il video dell’arresto di Carminati ho pensato: e questo sarebbe un boss? Anche la sua resa ha un tratto di ridicolo. Il mitra sul naso e l’ordine: “Spegni la macchina”. E Roma mafiosa? Mi soccorre ancora Flaiano, con la sua antropologia letteraria: “Le grandi passioni, i grandi errori? Il romano non commette mai grandi errori. E non li perdona agli altri. Chi esagera è ‘un fanatico’. Roma non ha una corte dei miracoli, non ha clochards in numero preoccupante, i mendicanti sono guardamacchine e la loro corporazione è più chiusa di quella dei notai”. Ci sono ancora, i guardamacchine e, al contrario dei vigili urbani, sono sempre al posto giusto nel momento giusto. E’ il segno di una certa acutezza della letteratura, quella di Flaiano.

 

“Se vai al mulino, capita che t’infarini”. Sì, mannaggia. E’ una storia priva del respiro del romanzo, sgangherata come i nomi dei suoi protagonisti, un sottobosco di voci gracchianti al telefono, materiale da brogliaccio. La sua sgrammaticatura è il rumore del carrello del supermarket sull’asfalto del piazzale del centro commerciale in periferia. Avanza. Cigolante. Colmo. In offerta speciale. E’ l’apoteosi del prendo, pago e non pago, carico il bagagliaio dell’auto e arrivederci. Non è la mafia e neppure la Grande Bellezza. E’ la Grande Distribuzione.

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