Mario Draghi e Pier Carlo Padoan (foto LaPresse)

Ecco l'unione fiscale

Marco Valerio Lo Prete

In Europa le vie verso una “più stretta unione di bilancio”, come l’ha chiamata Draghi, sono infinite. Ma se l’Eurozona non si deciderà a percorrere almeno una, rimarrà “incompleta”. Padoan e l’eurosussidio di disoccupazione. Uno studio sulla scrivania della Commissione Ue.

Bruxelles. In Europa le vie verso una “più stretta unione di bilancio”, come l’ha chiamata Mario Draghi, sono infinite. Ma se l’Eurozona non si deciderà a percorrere almeno una di queste vie, rimarrà “incompleta” – sempre per citare il discorso del presidente della Banca centrale europea tenuto lo scorso 27 novembre a Helsinki – e quindi più vulnerabile, economicamente e politicamente. Unione più stretta, dunque, ma come? I sostenitori degli Eurobond, cioè di titoli di debito pubblico comune, sembrano tornati in clandestinità dopo i troppi “nein” della Germania. Per il ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schäuble, la via preferita è quella di un super-ministro che controlli, ed eventualmente corregga, le leggi finanziarie dei paesi membri. Al ministro dell’Economia italiano, Pier Carlo Padoan, sta a cuore un’altra ipotesi ancora, si chiama “sussidio europeo di disoccupazione”. Il governo Renzi, nel suo semestre di presidenza dell’Ue, se n’è fatto portatore, anche a settembre in un Consiglio dei ministri dell’Economia. In quell’occasione l’accoglienza ufficiale non sarebbe stata calorosissima, ma l’idea continua a circolare nelle istituzioni comunitarie. Nei prossimi giorni il Ceps, Centre for european policy studies, think tank brussellese, presenterà uno studio sul tema, curato da Daniel Gros, economista tedesco che dirige il pensatoio, e dai suoi colleghi Miroslav Beblavy (slovacco) e Ilaria Maselli (italiana). Uno studio stilato su input ufficiale del Parlamento europeo. Sempre il Ceps, da gennaio, avvierà poi una ricerca lunga un anno e mezzo, su mandato ufficiale della Commissione Ue, per analizzare la fattibilità economica, politica e giuridica dello “European unemployment insurance system (Eui)”. Un sussidio di disoccupazione paneuropeo, dal punto di vista economico, agirebbe come “uno stabilizzatore automatico” comune. Cioè una risposta coesa e flessibile per fronteggiare choc che colpiscono con intensità diversa i paesi membri. Una politica anticiclica “all’americana”, con conseguenze non solo economiche.

 

Gli studiosi del Ceps per il momento hanno accantonato l’idea di costituire una sorta di “super Inps europeo” che gestisca direttamente l’elargizione del sussidio di disoccupazione per tutti i lavoratori, dice al Foglio Maselli, ricercatrice da sette anni per il think tank. Piuttosto si sono concentrati su un’ipotesi apparentemente più “minimal” ma che avrebbe il pregio di tener conto delle possibili critiche che già si levano da più parti. Tra cui una fondamentale: a finanziare il sussidio europeo di disoccupazione saranno sempre i soliti noti? “Si potrebbe istituire un fondo comune in cui gli stati membri dell’Ue, o in altra ipotesi della sola Eurozona, versano ogni anno lo 0,1 per cento del pil – dice Maselli – Dopodiché il fondo trasferisce risorse agli stati membri nei momenti in cui questi attraversano difficoltà estreme sul fronte dell’occupazione”. Un’idea è quella di far scattare l’aiuto comune soltanto in caso di recessione grave, cioè quando il tasso di disoccupazione diverge in maniera sostanziale dalla sua media di lungo periodo. A queste condizioni, gli accantonamenti previsti sarebbero sufficienti a coprire il 75 per cento dei disoccupati a breve termine per il 40 per cento del loro stipendio lordo. Dal 2008 al 2012, se questo meccanismo fosse stato in vigore, la Spagna avrebbe ricevuto aiuti per un ammontare pari al 6,7 per cento del suo pil; e il suo pil al 2012 sarebbe stato in terreno positivo invece che scendere di quasi 5 punti. L’Italia avrebbe avuto un contributo minimo (pari allo 0,02 per cento del pil) soltanto nel 2012.

 

[**Video_box_2**]La Germania però in questi anni sarebbe stata un contributore netto al fondo comune: avrebbe dato più di quanto avrebbe ricevuto: “Per evitare trasferimenti permanenti, i paesi che accumulano un deficit eccessivo verso il fondo comune si impegnano a ripianarlo pagando una quota annuale dello 0,3 per cento del pil. Anche negli Stati Uniti, dove pure il bilancio federale interviene comunque nei casi estremi con rapidità e logica redistributiva difficilmente replicabili in Europa, gli stati più colpiti s’impegnano a ripagare Washington negli anni – dice Maselli – Oggi poi a giovarsi del fondo sarebbero alcuni paesi periferici, ma alla fine degli anni 90 sarebbe stata la Germania a essere finanziata dagli altri paesi non colpiti da choc gravi, mentre all’inizio degli anni 90 i paesi scandinavi”. In questo modo, anche secondo studiosi di diverso orientamento come l’americano Harold James (Princeton University) o l’italiano Luigi Zingales (Chicago University), nascerebbe un meccanismo di solidarietà efficace ma non a senso unico. Un puntello per la moneta unica agli occhi dei mercati che fiutano una crescente sfiducia reciproca tra stati.