Matteo Renzi (foto LaPresse)

Renzi e la guerra invisibile tra partito della nazione e partito della regione

Claudio Cerasa

Al di là dei risvolti giudiziari, l’indagine sulla presunta connessione tra mafia e politica non ha avuto solo l’effetto di decapitare un pezzo importante della classe dirigente del vecchio Pd della capitale.

Roma. Al di là dei risvolti giudiziari, l’indagine sulla presunta connessione tra mafia autoctona e politica portata avanti dalla procura di Roma non ha avuto solo l’effetto di decapitare un pezzo importante della classe dirigente del vecchio Pd della capitale ma ha avuto anche l’effetto di far scivolare sulla scrivania del presidente del Consiglio un dossier, tutto politico, che riguarda un tema centrale che da mesi preoccupa il cerchio ristretto del rottamatore. Potremmo metterla così: ma il segretario del Pd, quanto controlla davvero il Pd? Il caso romano, dove il Partito democratico si è sciolto come neve al sole non per una condanna definitiva ma per il manifestarsi di un’inchiesta neppure passata in giudicato, ha dato a Renzi l’opportunità di mettere il Pd romano nelle mani del fidato Orfini ma ha permesso anche di stringere l’obiettivo dell’osservatore su tre particolari non di poco conto.

 

Primo: quanto ci si può fidare delle segreterie cittadine del Pd? Secondo: quanto funziona la vigilanza degli organismi intermedi sulle situazioni critiche locali? Terzo: che presa ha la segreteria a vocazione renziana sulle realtà lontane dal Nazareno? La velocità di Renzi ha permesso al Pd non solo di disinnescare i goffi tentativi dei furbetti dello scooppino che da giorni provano a creare link tra il malaffare romano e il Pd renziano (dalla foto di Poletti al tentativo di dimostrare che il dottor Buzzi sia un finanziatore di Renzi); ma anche di ammortizzare le conseguenze innescate dalle dimissioni prima di un pezzo grosso della giunta Marino (l’assessore alla Casa) e poi di un pezzo grosso del consiglio comunale (il presidente dell’Assemblea) ma dall’altra parte la preoccupazione dei renziani è che i guasti nella catena di comando manifestatisi a Roma possano essere il preludio di uno scollamento più grande legato a un fenomeno che potremmo definire così: il partito della nazione contro il partito della regione. Due partiti nello stesso partito. Un partito locale contrapposto a uno nazionale. Con uno scollamento che si manifesta seguendo due direttrici. Da una parte gli scandali giudiziari (o presunti tali) contribuiscono ad allontanare il vento dalle vele del presidente del Consiglio (il caso Roma arriva dopo altri commissariamenti che hanno fatto discutere: Viareggio, Livorno, Civitavecchia, Venezia, Marsala, Quarto, Giugliano, questi ultimi due grossi comuni della Campania).

 

Dall’altra parte, alcune dinamiche locali dimostrano invece a Renzi la lontananza del suo Pd rispetto a realtà non nazionali ma politicamente strategiche. E, da questo punto di vista, il partito della regione potrebbe trasformarsi in un elemento di debolezza per il partito della nazione. Allontanandosi dalla cronaca giudiziaria e avvicinandosi a quella politica, il ragionamento si spiega andando a osservare la geografia del Pd e in particolare i governi della regione. Il Pd, a stare ai numeri, nelle regioni che oggi governa e che proverà a governare anche domani non ha – tranne Debora Serracchiani o l’ultra convertito Marcello Pittella – un solo governatore che si possa considerare un renziano della prima ora. E anche nelle regioni che torneranno al voto nella prossima primavera la situazione non promette di migliorare. In Calabria ha appena vinto le elezioni un candidato (Oliverio) convintamente non renziano. In Emilia Romagna ha vinto le elezioni un candidato (Bonaccini) che renziano lo è diventato dopo essere stato per una vita bersaniano. In Veneto il Pd si presenta con un candidato che renziano lo è diventato dopo essere stato per una vita bersaniano (Moretti). In Puglia il Pd gioca con un candidato (Emiliano) renziano nella forma ma poco nella sostanza. In Toscana il Pd schiera un governatore che più non renziano non si può (Rossi). In Umbria stesso discorso con Catiuscia Marini. E anche per le partite di Liguria, Campania e Marche, all’orizzonte ci sono solo brillanti candidati diversamente renziani. Le vicende politiche si intersecano dunque con quelle giudiziarie e mettono a tema una questione che Renzi farebbe bene a non sottovalutare: la difficoltà di coltivare a livello locale un partito fatto a sua immagine e somiglianza, che sappia trasferire lontano dal Nazareno lo spirito del partito della nazione; e che un domani, se il mare della politica dovesse ritrovarsi in una tempesta improvvisa, possa essere un’arma non da cui difendersi ma sulla quale poter semplicemente contare.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.