La polizia rimuove le transenne dalle strade di Hong Kong (foto AP)

E il coro democratico per Hong Kong? Smontato assieme alle tende

Redazione

Il movimento per la democrazia a Hong Kong è bloccato, paralizzato dal suo stesso pacifismo e dall’incapacità di agire.

Roma. Il movimento per la democrazia a Hong Kong è bloccato, paralizzato dal suo stesso pacifismo e dall’incapacità di agire, e Pechino e il governo della città lo stanno frantumando pezzo per pezzo. Le proteste per il suffragio universale, iniziate a settembre, sono arrivate ieri al loro sessantesimo giorno, più di quanto chiunque si aspettasse, analisti e governo e gli stessi studenti, ma ormai il gran campeggio democratico delle prime settimane, con le opere d’arte e i ragazzi che fanno i compiti per strada, si è trasformato nell’attesa tediosa di una mossa del governo che sblocchi la situazione, dialogo o repressione che sia, basta che qualcuno ci dica cosa succederà, qui siamo pronti a trattare e a combattere, se il governo non si muove anche noi siamo bloccati sull’asfalto. Ma il governatore Chun-ying Leung e la sua vice Carrie Lam hanno chiuso tutti i canali di dialogo – e per quanto riguarda la repressione, la usano con accortezza sufficiente per non far tornare le simpatie della città dalla parte degli studenti. Perché l’altro problema è questo: la maggioranza della popolazione ancora sostiene le cause della protesta, ma una maggioranza ancora più grande, dicono i sondaggi, vuole che i manifestanti tornino a casa, disfino le tende e lascino la città al suo traffico infernale.

 

Così negli ultimi due giorni, quando il governo della città ha sgomberato il presidio nel quartiere dello shopping di Mong Kok (uno dei tre siti occupati dagli studenti; gli altri due sono Admiralty, il più importante, e Causeway Bay) distribuendo anche qualche manganellata, e quando ha arrestato più di cento manifestanti, tra cui anche Joshua Wong (rilasciato oggi su cauzione), il diciottenne leader della protesta che il mese scorso è finito perfino sulla copertina di Time, e quando il governatore Leung ha provocato esortando i cittadini a “fare shopping” nel quartiere, la reazione dei manifestanti non è stata quella che sarebbe stata un mese fa – né lo è stata quella dei media occidentali dopo l’arresto di uno dei suoi beniamini. Certo, manifestanti e polizia hanno iniziato a litigarsi le strade del quartiere, ci sono state scaramucce e contusi, gli studenti hanno cercato di alzare nuove barricate a poca distanza, e per due sere di fila su Twitter sono circolate mappe che mostravano i ragazzi e la polizia (oltre settemila agenti) che giocavano al gatto col topo. Ma alla fine il governo si è preso un grosso pezzo della protesta, e i manifestanti l’hanno lasciato andare. Gli sgomberi di questi giorni (la scorsa settimana la polizia si è presa un’altra strada ad Admiralty) sono il ritratto di come la protesta si stia sgretolando lentamente. La polizia usa delle ingiunzioni giudiziarie (sollecitate dalla filo governativa federazione dei tassisti) per chiedere lo sgombero di un pezzo di strada, di una carreggiata, di un incrocio. Davanti alla giustizia che si pronuncia nero su bianco i manifestanti lasciano fare, e così la polizia si riprende un pezzo di presidio, poi un altro, aiutata dagli ufficiali giudiziari e da gruppi di “volontari” in pettorina fluorescente che appaiono dal nulla, smontano le barricate e poi scompaiono. La strategia del lento sgretolamento sta funzionando, e tra gli studenti nascono movimenti minoritari che vorrebbero fare azioni più plateali, come quando la settimana scorsa qualcuno ha rotto i vetri del palazzo legislativo.

 

Lunedì il Wall Street Journal ha raccontato che da Pechino sta per arrivare un “aggiornamento” della norma elettorale autoritaria che a settembre diede inizio alle proteste. Sarà un cambiamento cosmetico, quanto basta per mostrare all’opinione pubblica della città, già spazientita, che gli oltranzisti sono gli studenti con i loro accampamenti – che perderanno altri pezzi.

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