Jens Weidmann e Mario Draghi (foto Ap)

Banchieri centrali sull'orlo di una crisi di nervi. Ecco perché

Marco Cecchini

Indipendenza a rischio: le uscite anti Mario Draghi del banchiere ortodosso Weidmann (“cacciatore”, in tedesco), poi i sondaggi a ripetizione e le proposte di legge sulla Federal reserve americana, infine la Bank of Japan che diventa addirittura oggetto di spoils system nelle tornate elettorali.

Nella lingua tedesca la parola “Weidmann” significa “cacciatore”, letteralmente “uomo dei boschi”. E’ certo una coincidenza che Weidmann sia anche il nome dell’attuale governatore della Bundesbank, Jens Weidmann. Ma per ironia della sorte da qualche tempo il capo della Banca centrale tedesca sembra abbia indossato le vesti di cacciatore di nome e di fatto. La sua preda è il presidente della Banca centrale europea (Bce), Mario Draghi, di cui contesta le scelte nel Consiglio direttivo, ne attacca pubblicamente le decisioni e, nel caso degli Omt (Outright monetary transactions) da lui voluti, addirittura testimonia contro la loro legittimità presso la Corte costituzionale federale tedesca di Karlsruhe. Se alla fine riuscirà a catturare la preda, dice qualcuno, forse prenderà perfino il posto al settimo piano della Eurotower.

 

Quasi sempre a coprire il governatore tedesco c’è il potente ministro delle Finanze di Berlino, Wolfgang Schäuble, e negli ultimi tempi una cancelliera Angela Merkel particolarmente silente, diversamente da altre occasioni. La Bundesbank e il governo dunque vanno a braccetto sulle questioni che riguardano la Bce. E i politici, soprattutto l’ala destra della Cdu, giocano di sponda attaccando la possibilità che la Banca centrale europea prenda decisioni a maggioranza contro il parere della Bundesbank e spingendosi fino a chiedere per quest’ultima la possibilità di esercitare un diritto di veto sulle deliberazioni della Eurotower. Solo i nervi d’acciaio e l’abilità manovriera di Draghi hanno permesso finora di resistere a queste pressioni incrociate.

 

La vicenda della Bce ha specificità molto europee, ma è anche paradigmatica di un problema più generale che riguarda le crescenti minacce all’indipendenza delle Banche centrali. La crisi finanziaria ha indebolito ovunque, nel mondo sviluppato, la capacità di governo della politica e trasferito sulle Banche centrali l’onere di mettere in atto le politiche per fuoriuscire dalla crisi, investendole di un ruolo di supplenza e nello stesso tempo di un enorme potere. Come era prevedibile, e come era stato anticipato già nel 2011 da uno studio della Banca dei regolamenti internazionali (Bri), intitolato “Central banking post crisis: what compass for uncharted waters?”, sulla politica monetaria e i suoi artefici si sono accesi potenti fari, con lo scopo in qualche caso di indurre i governatori a politiche più espansive, in altri a limitarne le possibilità di manovra e le prerogative.

 

In un articolo per il New York Times, il commentatore Anatole Kaletsky ha scritto che “nonostante l’indipendenza garantita dai trattati, la Bce è stata immobilizzata dalla politica tedesca, con il risultato di apparire incapace di attuare le decisioni del suo Consiglio esecutivo o anche di controllare il suo bilancio senza il consenso di Angela Merkel”. Oltreatlantico, secondo un sondaggio Gallup, la fiducia degli americani nei confronti della loro Banca centrale è scesa dal 50 al 39 per cento tra il 2007 e il 2012, per poi risalire di 3 punti nel 2013. Il risultato appare paradossale se si considera il successo delle politiche del governatore Ben Bernanke nel rilanciare l’economia. Ma il Congresso, e soprattutto i suoi esponenti repubblicani, si sono sentiti espropriati dei poteri di spesa e di imposizione in seguito ai ripetuti cicli di Quantitative easing (allentamento quantitativo) lanciati dalla Fed. Tanto che la riconferma di Bernanke prima e la nomina di Janet Yellen poi, sono state votate dal Congresso con una maggioranza risicata. Sono lontani i tempi della Grande moderazione in cui il governatore Alan Greenspan veniva riconfermato per “acclamazione”. Secondo uno studio del think tank Brookings Institution – “Federal Reserve Independence in the Aftermath of the Financial Crisis” – i rischi di una perdita di autonomia della Banca centrale sono cresciuti e ci sono “motivi di preoccupazione”, perché l’indipendenza è una garanzia di fronte alle ingerenze della politica che ha obiettivi di breve termine di tipo elettorale. “Le consuete proposte di legge per portare la Fed sotto un maggiore controllo non possono più essere sottovalutate”, dicono alla Brookings.

 

Tokyo l’apripista - Se dagli Stati Uniti e dall’Europa ci si sposta infine in Giappone, le cose vanno ancora peggio. Qui l’indipendenza della Banca centrale, la Bank of Japan o BoJ, è stata significativamente ridotta senza nemmeno passare attraverso una riforma della legge istitutiva, ma utilizzando la minaccia di rimozione del governatore in carica a disposizione del ministro delle Finanze, che ha il potere di nominare e appunto revocare il presidente della Banca centrale.

 

Durante la campagna elettorale del 2012, sia l’opposizione guidata dal futuro premier Shinzo Abe, sia il partito di governo, avevano perorato la causa di politiche monetarie più aggressive per battere la deflazione e la BoJ aveva sottoscritto un comunicato congiunto in questo senso con il ministero delle Finanze. Una volta alla guida del governo, Abe aveva sostituito il governatore in carica con il più accomodante Haruhiko Kuroda che ha avviato immediatamente una politica fortemente espansiva e promosso la svalutazione dello yen, con risultati nel complesso positivi ma non privi di ombre. Tanto che in queste ore il governo in carica ha annunciato che presto si andrà nuovamente a elezioni, ponendo verosimilmente al centro del dibattito pubblico la cosiddetta Abenomics e quindi, ancora una volta, il ruolo della Bank of Japan.

 

Nel mondo del dopocrisi, insomma, quella del banchiere centrale è sempre più un’arte che include anche la capacità di resistere alle ingerenze della politica.

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