Il ministro dell'Economia Pier Carlo Padoan (foto LaPresse)

Il sussidio europeo di disoccupazione

Andrea Garnero

Siamo alla vigilia di un grande patto per la crescita che prenderà mesi per essere negoziato”, ha detto il presidente dell’Eurogruppo Jeroen Dijsselbloem, socialista olandese di rito merkeliano. Consegnate ieri le leggi di stabilità a Bruxelles, ora si negozia. In cosa consisterebbe questo patto?

Siamo alla vigilia di un grande patto per la crescita che prenderà mesi per essere negoziato”, ha detto il presidente dell’Eurogruppo Jeroen Dijsselbloem, socialista olandese di rito merkeliano. Consegnate ieri le leggi di stabilità a Bruxelles, ora si negozia. In cosa consisterebbe questo patto? Secondo Wolfgang Schäuble, il ministro delle Finanze tedesco, in cambio di riforme approvate si può dare denaro a buon mercato per gli investimenti e margine di manovra sul bilancio (la famosa flessibilità) ma dentro le regole attuali. Francia e in parte Italia, invece, vorrebbero flessibilità oltre le regole attuali e intanto si sono già prese i miliardi di margine, poi (forse) arriveranno le riforme.

 

Questo “grande patto”, anche se approvato, servirebbe al massimo per il breve termine. Una maggiore flessibilità non risolve i problemi strutturali della governance economica dell’Unione europea. Se sarà abbattutto il totem del 3 per cento, avremo quello del 4, 5 o del 6 per cento. Qualche margine in più, ma alla fine il problema di fondo non cambia: di fronte al pilastro della politica monetaria governato dalla Banca centrale europea, gli stati oppongono solo un sistema contabile di controllo dei conti a livello di singolo stato. Infatti il deficit di tutta l’Eurozona per il 2014 è previsto al 2,6 per cento, in perfetta forma rispetto al 5,4 per cento degli Stati Uniti e al 7,5 per cento del Giappone. Se il trattato di Maastricht era “stupido”, il Fiscal compact è solo marginalmente più intelligente: permette di prendere in conto la dinamica di aggiustamento e l’effetto del ciclo. Un passo avanti nel controllo contabile dei conti, ma siamo ancora lontani da un governo politico dell’economia, fondato su, Tommaso Padoa-Schioppa docet, “austerità per gli stati e crescita per l’Europa”. La flessibilità di cui si sta discutendo non garantisce né l’una né l’altra.

 

Il piano triennale di investimenti di 300 miliardi proposto dalla Commissione Ue, infatti, è ancora tutto da inventare e senza risorse aggiuntive sarà solo un rimescolamento di poste di bilancio. L’Italia, poi, anche se avesse i soldi (intorno al 10 per cento del totale) non sarebbe in grado di spenderli, perché, citando Dario Scannapieco, vicepresidente della Banca europea degli investimenti (Bei) che sarà il principale braccio operativo nel piano di Juncker, “non ci sono abbastanza progetti finanziabili. Manca la capacità progettuale. E quindi i fondi europei vanno a pagare la sagra della porchetta”. Così perdiamo soldi e credibilità politica tanto che i falchi non tralasciano mai occasione (giustamente) di ricordarci che potremmo cominciare a spendere quanto già abbiamo.

 

Il grande “growth deal” deve andare oltre il tormentone sulla flessibilità, altrimenti sarà l’ennesimo aggiustamento al margine, secondo la tipica ricetta europea del troppo poco e troppo tardi. Tramontato temporaneamente il dibattito sul debito comune (Eurobond), Schäuble propone un passo avanti nel processo di integrazione economica e pensa a una sorta di ministro europeo delle Finanze con il potere di intervenire sulle scelte degli stati. Ma di sola supervisione fiscale l’Europa muore. Il ministro europeo che ha in mente Schäuble va dotato anche di strumenti di azione comune, cioè almeno una forma minima di politica fiscale. Altrimenti continuiamo a delegare a Francoforte tutte le risposte mettendo in difficoltà Draghi che ha un mandato e strumenti, per quanto innovativi, limitati. Ci sono varie proposte di unione fiscale sul tavolo: si va da un semplice strumento di assicurazione degli stati in caso di crisi acuta fino a un budget vero e proprio, ben oltre il misero 1 per cento del pil attuale. Non è più una questione di pochi idealisti rimasti a Ventotene. Per l’economista Luigi Zingales addirittura “o si procede rapidamente verso un’unione fiscale, o è meglio procedere a un divorzio consensuale”. Il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, di sponda con il commissario europeo all’Occupazione László Andor, ha portato ai colleghi ministri delle Finanze la proposta di un sussidio europeo di disoccupazione come strumento comune contro le crisi. Ha ricevuto un rifiuto da parte dei soliti noti, ma intanto ha piazzato l’asticella un po’ più in là della mera flessibilità. Si trattava, infatti, solo di un primo giro di opinioni. Non ci si deve demoralizzare, è successo anche per altre idee poi divenute di successo.

 

[**Video_box_2**]Il problema di fondo è il deserto politico e intellettuale, soprattutto tra i socialisti. I conservatori europei hanno un’idea chiara, lo hanno dimostrato all’audizione di Pierre Moscovici non accettando deviazioni di alcun tipo. I socialisti, invece, vanno in ordine sparso. Il presidente francese François Hollande fa sponda con Matteo Renzi ma i francesi rimangono troppo attaccati alla grandeur degli stati nazione. I socialisti spagnoli, al di là della sintonia delle camicie bianche, devono ancora decidere se preferiscono il modello greco di Syriza di contestazione radicale o il Pse europeo (il bel Pedro ha invitato a votare contro Juncker). I socialdemocratici tedeschi, ottenuti il salario minimo e l’abbassamento dell’età pensionabile in patria, hanno poche cartucce rimanenti. Rimane l’Italia. Ma serve che il governo dei calzoni corti, soprattutto al vertice di dicembre che fisserà le linee guida per i prossimi anni, aiuti Padoan e allarghi gli orizzonti oltre al nuovo sol dell’avvenire della flessibilità.