Il ministro dell'Economia Pier Carlo Padoan e il pari ruolo francese Michel Sapin (foto LaPresse)

La nube della stagnazione secolare

Giorgio Arfaras

Esorcizzare lo spauracchio si può, investendo molto ma bene.

Proviamo a disporre i punti di vista che si offrono oggi sul mercato delle idee. Si ha chi pensa che la crescita non tornerà ai livelli antecedenti la crisi – il punto di vista della “stagnazione secolare”: la crisi può finire, ma la crescita sarà moscia. E’ il caso di darsi una mossa per evitare questa prospettiva, incalza il quotidiano britannico Guardian. Come agire dunque? Si tenga presente che la crescita non può essere moscia, perché chi lavora dovrà mantenere una popolazione a invecchiamento crescente, ossia chi lavora dovrà finanziare una maggior spesa per le pensioni e per la sanità. Una crescita che eviti la “stagnazione secolare” da dove verrà mai? Secondo alcuni si ha una “carenza di domanda”, e dunque si propone una maggior spesa pubblica. Secondo altri, invece, si ha una “carenza di offerta”, e dunque si propone una liberalizzazione del mercato dei prodotti e del lavoro. Possiamo chiamare – per amore delle etichette – i primi “keynesiani”, e i secondi “schumpeteriani”. Esiste un punto di raccordo? E’ necessaria una premessa. Quando un’economia rallenta, la Banca centrale di turno cerca di ridarle vigore. Il minore costo del denaro spinge i consumi e gli investimenti. L’economia smette di rallentare e poi si riprende. Il tasso di sconto è stato abbassato nell’euro area, ma gli investimenti non sono ripartiti. Gli investimenti e l’occupazione, infatti, ripartono se gli imprenditori pensano che in futuro ci sarà una maggior domanda, superiore a quanto sono in grado di produrre oggi con gli impianti e la manodopera in essere. Se non lo pensano, non investono e non assumono. Il costo del denaro diventa così meno importante delle aspettative intorno alla domanda. Segue che il costo del denaro, per quanto lo si schiacci fino a portarlo intorno allo zero, diventa meno importante. Vale lo stesso per le famiglie, che tornano a consumare, solo se pensano che in futuro avranno un reddito maggiore.

 

E’ qui arriva l’idea che, in un mondo subissato dall’incertezza intorno al futuro, deve agire chi ha orizzonti temporali lunghi e non ha vincoli finanziari: ecco la spesa pubblica in deficit. Lo stato spende più di quanto raccolga con le imposte e, in presenza di sottoccupazione degli impianti e della manodopera, riesce – generando una domanda addizionale dal nulla – ad alzare la domanda più di quanto altrimenti avverrebbe. La maggior domanda rianima l’economia.

 

[**Video_box_2**]Insomma, quando si ha crisi, prima si agisce sul versante della politica monetaria, e, se questa non funziona, sul versante di quella fiscale. E tutto torna come prima. Si noti come in questo ragionamento ci siano i flussi di reddito (consumi, investimenti, spesa pubblica) ma non gli stock (il debito pubblico e quello privato), e come la spesa pubblica in deficit, una volta che abbia assolto il compito di rianimare l’economia, cessi. La spesa pubblica, invece, quando riparte non si ferma, perché si creano nuovi interessi che desiderano che essa si mantenga al livello più elevato: la maggior spesa pubblica invece di essere ciclica, ossia funzionale al solo smussare le variazioni dell’economia, diventa permanente. Se diventa permanente in presenza di un elevato debito pubblico, diventa poi molto difficile portare quest’ultimo sotto controllo. Con un debito pubblico elevato l’economia diventa più vulnerabile agli choc futuri.

 

Se la spesa pubblica non fosse generica ma dedicata – come si avrebbe con un programma di investimenti in infrastrutture finanziato dalla Banca europea per gli investimenti (Bei) con garanzia della Banca centrale europea; investimenti che non sarebbero contati come debito pubblico – avremmo soddisfatto il punto di vista keynesiano, che punta il dito sulla carenza di domanda. La spesa pubblica in infrastrutture ha poi il vantaggio di avere un moltiplicatore elevato – ossia essa genera un reddito maggiore della spesa iniziale. Ed è una linea che dovrebbe passare anche nell’Eurozona, e potrebbe fare comodo al presidente del Consiglio italiano Matteo Renzi (e non solo), il quale infatti dice di volere restare sotto il rapporto deficit/pil del 3 per cento. Un tema, quello della ripresa degli investimenti, che è entrato nell’agenda all’Eurogruppo, e quindi del contesto allargato dell’Ecofin, ha detto ieri il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan. Al consesso dei 18 ministri economici e finanziari dei paesi dell’Eurozona, riunitisi ieri in Lussemburgo, si è discusso anche di come scongiurare la bocciatura da parte della Commissione delle leggi finanziarie di Francia e Italia che intendono rimandare, nel caso francese, il raggiungimento del tetto del deficit/pil al 3 per cento e, in quello italiano, il pareggio di bilancio al 2017. Padoan si è poi detto “fiducioso che con una combinazione di investimenti strutturali, riforme e politica monetaria accomodante” l’Europa e gli stati membri “una crescita sostenibile”. Con un mercato dei prodotti e del lavoro liberalizzati, le innovazioni – dei prodotti, dei processi di produzione, e della distribuzione – si dovrebbero espandere velocemente. Facendo così, avremmo soddisfatto il punto di vista schumpeteriano, che punta il dito sulle carenze dell’offerta.

 

Con la spesa pubblica dedicata (in infrastrutture) e non generica (in assunzioni), si ottiene una maggior domanda, senza che si alimentino nuovi interessi che diventano poi permanenti. Con le riforme nel campo dei prodotti e del lavoro si ottiene così un maggiore dinamismo dell’economia. Insomma, si può combinare un programma che non produca un deficit pubblico sopra gli accordi europei, mentre con gli investimenti dedicati e le riforme si spinge la crescita.

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